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Avevo voglia di bere qualcosa di forte. Nel frigo non c’era più traccia di birra e anche l’ultima goccia di rhum era terminata. Dalla finestra, una lenta e timida pioggerella lasciava qualche traccia evanescente sul marciapiede, ma non sembrava che il tempo potesse peggiorare. La macchina l’avevo lasciata parcheggiata sotto la finestra della cucina, vicino al negozio di ferramenta, non avevo voglia di rimettermi al volante dopo una settimana trascorsa in viaggi di lavoro.

Dall’armadio avevo preso il vecchio impermeabile chiaro, un po’ fuori moda e, tirando su il bavero, mi ero diretto a piedi verso il pub in fondo al viale. Con un passo veloce, in poco più di cinque minuti sarei stato al riparo e mi sarei scaldato lo stomaco. Avevo voglia di calore, di qualcuno e qualcosa che ancora mi scaldasse, e non solo lo stomaco ma anche il cuore. Ma non ero certo che quel pub sarebbe stato il locale giusto per me.

L’insegna al neon blu “Bricolage”, ancora accesa, illuminava a intermittenza la strada semideserta e la mia Alfa antracite. Solo un cane malandato, con la coda bassa, procedeva incerto a destra e a manca lasciando le sue tracce biologiche. Mi faceva un po’ pena: era solo e randagio.

Anch’io ero solo.

Erano già passati due mesi da quando Susy mi aveva lasciato e, per non pensare più a lei, mi ero immerso nel lavoro. Avevo allargato il giro dei clienti e in poco tempo era aumentato anche il fatturato e il mio conto corrente non era più in rosso. Sembrava che tutto procedesse a gonfie vele. Chi mi osservava da fuori non sapeva quello che avevo passato. Con lei era stata una catastrofe. Diceva di amarmi, ma avevo scoperto che mi tradiva. Lo aveva fatto con uno di trentadue anni che abitava al piano di sopra ed erano scappati insieme. L’unica cosa che mi aveva lasciato era la vasca dei pesci rossi e la tartaruga che puzzava. I pesci erano finiti nello sciacquone del bagno. La tartaruga l’avevo lasciata vicino a una siepe al parco pubblico.  

Il pub, appena arrivato, era affollato da giovani; tutti sui venti/venticinque anni che sghignazzavano. Io, con il mio impermeabile demodé e, i quasi cinquant’anni che si stavano facendo strada, non mi sentivo perfetto in quell’ambiente. Ma, chiesi da bere alla ragazza che stava servendo: una birra scura media e un Pampero.

Mi ero seduto sullo sgabello di fronte al banco; faceva caldo e mi sono sbottonato il soprabito. La ragazza che mi aveva servito aveva due piercing sul viso: uno sul labbro inferiore e uno che le trapassava il sopracciglio come un chiodo. Tranquillamente continuava a spillare birra, come se quel ferro che aveva conficcato nella carne fosse del tutto normale; io, che per una piccola scheggia di legno infilzata nella mano, mentre armeggiavo con una cassetta di legno, mi ero sentito morire.

Facevo queste considerazioni quando mi accorsi che in fondo alla sala, nella semioscurità, due occhi scuri mi stavano osservando. Due occhi neri come la pece, incorniciati da una cascata di capelli, scurissimi e ricci. Continuavo a sentire la loro presenza anche quando non mi guardavano. Mi scolai il rhum che, con un tonfo, era scivolato giù nello stomaco. Stavo appena meglio, ma percepivo sempre quegli occhi estranei su di me.

Mi sentivo alieno in mezzo a quella gente. Quella tipa, che mi stava occhieggiando, era l’unica della sala più vicino alla mia età, almeno in apparenza. Mi alzai dallo sgabello e, con il bicchiere di birra in mano, decisi di tentare un approccio. Mentre mi stavo avvicinando sentivo un calore insolito che mi saliva dalla colonna vertebrale, non poteva essere l’effetto dell’alcol, ero ancora solo al primo bicchiere. Lei aveva distolto lo sguardo e stava accarezzando il cagnetto bianco che teneva appoggiato sulle gambe. Dalla mia postazione non l’avevo notato e, a mano a mano che mi avvicinavo, la bestiola si agitava abbaiando rabbiosa come se avesse visto un gatto.

Lei cercava di tranquillizzarla, carezzandola sotto il muso, ma sembrava che la mia presenza la infastidisse: «Buona Kriss, stai buona…» e aggiunge: - «Ora la mamma ti porta a casa». Mentre cercava di calmare quel piccolo demonio, mi avvicinai e attaccai discorso.

- Ciao… piuttosto nervoso Kriss! - le dico.

- Non so cosa le abbia preso, di solito fa la brava!

- Posso offrirti qualcosa? – Lei mi ha guardato e mi piantato di nuovo i suoi pugnali.

- Vai sempre così di fretta tu? – poi: - dovrei andare lei è agitata, non capisco cosa la disturbi.

- Hai ragione, mi presento. Mi chiamo Ross per gli amici. Ma nel lavoro sono semplicemente Rossano.

- Ciao Ross, siediti… allora prendo un rhum come quello che hai preso tu.

- Quindi devo supporre che siamo già amici! – le ho detto porgendole la mano.

Il contatto con la sua mano era stato gelido: era come se avessi stretto una protesi d’acciaio in una fredda giornata di fine gennaio.  Ma eravamo appena al dieci di ottobre.

Quel gelo mi era entrato in circolazione.

Mi sedetti, appoggiando il bicchiere di birra ancora pieno a metà sul suo tavolo. Dopo un attimo, arrivò la ragazza che faceva servizio ai tavoli. Anche lei come quella al banco, era cosparsa di tatuaggi e di ferraglia varia.

- Allora, due Pampero doppi! – Lei ci guardò distrattamente con aria scazzata, prese nota e girò i tacchi; dopo un minuto era di nuovo al tavolo con in mano due bassi bicchieri di rhum con ghiaccio.

- Ma non mi hai detto ancora il tuo nome.

- Non è importante...

- Come non è importante… se dobbiamo bere insieme dovrò pure darti un nome!

- Se proprio ci tieni, dammene uno tu!

- Sei strana… direi misteriosa.

- Lo so.

- Mystery. Mi sembra che possa andare… ti piace?

- Non male. Ci sei andato vicino… il mio nome è Terry.

Mi stavo divertendo a quel gioco di enigmi. Terry mi incuriosiva e, forse, anche lei come me, era fuori posto in quel locale. Magari anche lei si sentiva sola ed era capitata lì per caso.

Non sembrava però una prostituta, forse aveva solo voglia di scambiare due chiacchiere con qualcuno.

Terry mi aveva attirato al suo tavolo con il magnetismo del suo sguardo. Mentre stavamo assaporando il nostro rhum, lei sembrava a suo agio con quella musica techno che seguitava a martellarmi nelle orecchie. Percepivo i suoi occhi che continuavano a scrutarmi, come se avesse voluto penetrare la mia anima.

Faceva caldo. Lei fece scorrere la zip del suo corpetto di pelle nera e il foulard di seta rossa legato al collo, non era riuscito a nascondere il suo seno pieno e turgido, bianco come il latte.

Quella mossa strategica mi aveva spiazzato. Era lei che conduceva il gioco ed io ero lì a farmi domande senza trovare le risposte.

Si era accorta della mia agitazione:

- Fa caldo… ti stai annoiando?

- No, ma questa musica…

- Non ti piace?

- Beh! Non è il mio genere.

- Vuoi uscire?

- Magari facciamo due passi… ma ha ricominciato a piovere.

- Sei a piedi?

- Sì, la macchina l’ho lasciata a casa. Mi andava di camminare.

- Possiamo prendere la mia.

Era chiaro. Ero finito nella sua rete e mi lasciavo trascinare come un pesce.

Il tempo era peggiorato e la pioggia battente ora sferzava la strada deserta. In un solo colpo si era scolata il resto del bicchiere, aveva preso in braccio Kriss precedendomi verso l’uscita.  Il suo completo di pelle nera attillato metteva in risalto tutto lo splendore del suo corpo; con la fantasia ero già tra le sue braccia. Il suo comportamento deciso e sicuro però mi aveva messo addosso una certa agitazione che non sapevo giustificare.

La Porsche nera era parcheggiata davanti all’ingresso, sul lato opposto della strada: il telecomando azionato a distanza ha fatto brillare nella notte le quattro luci gialle intermittenti. Kriss si era calmata e l'accovacciò sul sedile posteriore. Aveva smesso di ringhiare e si stava abituando alla mia presenza. Da quando mi ero avvicinato e lei aveva preso ad accarezzarla non aveva più abbaiato, era caduta in uno stato di sonnolenza.

- Vuoi che ti accompagni a casa?

- Mi vuoi scaricare?

- Non era questo che volevo dire. Sta piovendo.

- Bella la tua auto!

- Grazie.

- Vuoi che ti porti a fare un giro?

- Mi posso fidare?

- Direi di sì.

- Allora andiamo!

Mise in moto, diede un paio di sgassate e via! Terry partì a razzo con le ruote incollate sull’asfalto bagnato appiccicandomi allo schienale. Il rombo del motore era come una sinfonia di pistoni e valvole. Riusciva a scalare le marce con la precisione di un pilota di formula uno. Ero stupito della sua abilità nel condurre un’auto così potente senza perdere mai il controllo. In un attimo ci ritrovammo a percorrere le strade e i viali della città a velocità sostenuta. Le luci della notte specchiavano sulle pozzanghere. Lei mi sorrideva e mi sfiorava con la coda dell’occhio, senza staccare mai lo sguardo dalla strada.  

- Hai paura?

- No, ma mi stupisci.

- Lo so. Hai mai visto una donna guidare così?

- No. Tu non sei come tutte le altre, sei eccezionale!

- È vero!

- Non sei modesta…

- Perché dovrei esserlo? A te piacciono quelle mediocri?

- … no.

- Bene, allora proseguiamo!

- Che vuoi dire?

- Andiamo avanti. Ti vuoi fermare proprio ora?

Mi sentivo in balìa di quella donna. Dipendevo da lei, dalla sua volontà. Come avrei fatto a scendere? Gli avrei chiesto di riportarmi a casa? No, quello era da escludere. Che figura avrei fatto? Dovevo continuare a stare al suo gioco. Ma dove mi avrebbe condotto quel gioco? Mentre stavo rivoltando quei pensieri, lei accostò al bordo di una stradina di campagna. Eravamo arrivati in periferia e aveva smesso di piovere. Le nuvole si erano diradate e il disco giallo della luna faceva capolino illuminando la notte. La campagna era lì a due passi da noi. Un lungo viale alberato fiancheggiava la strada sulla destra, una doppia fila di ippocastani conduceva ad una villa.

- Perché ti sei fermata?

- Vuoi venire da me, …a bere qualcosa.

- Dove abiti?

- Là, in fondo al viale.

- Quella villa è la tua casa?

- Sì.

- Ci abiti da sola?

- Sì, cioè no… con loro e la mia governante.

- Loro. Chi?

- Le bestiole.

- …ah!

- Andiamo, allora?

- Bene, e sia! – risposi, cercando di farmi coraggio.

Rimise in moto e imboccammo il lungo viale. Le scure chiome degli ippocastani, sopra di noi, ci sovrastavano come la volta di una buia galleria. In fondo si scorgeva la grande villa a due piani. Alcune finestre erano illuminate. Il cancello, si aprì automaticamente azionato dal suo telecomando. Ad attenderci tre grossi alani che, con fare minaccioso, si aggiravano intorno all’auto. Io ero uno sconosciuto per loro. Avrei preferito essere invisibile. Lei aprì la portiera e le tre fiere le si accostarono per farle le feste.

- Ciao belli… come va? È tornata la vostra mamma, con un nuovo amico.

Li accarezzava come fossero cucciolotti di cocker. I tre alani la annusavano e con le zampe posteriori si alzavano fino ad arrivarle al viso. E lei, si lasciava leccare stropicciandoli sul capo uno alla volta.

- Hai paura? Non temere, sei con me… sanno che mi sei amico.

- Se lo dici tu! – Ma, mentre lo dicevo non ne ero affatto convinto. Appena aperta la portiera, le tre belve avevano iniziato a girarmi intorno per studiare il nuovo “amico”. Fortunatamente Kriss era saltato giù dall’auto e loro avevano preferito giocherellare con lui. Lo facevano rimbalzare con il muso come un fagottino di peluche bianco. Mi avvicinai a Terry che aveva capito la mia paura e mi prese per mano.

La sua mano era calda. Molto calda.

- Stai tranquillo, andrà tutto bene.

Non capivo cosa volesse dire con: “andrà tutto bene”. Stavo maledicendo l’attimo in cui avevo deciso di avvicinarmi al suo tavolo. Adesso mi sentivo di nuovo fuori posto. Era come se quella villa, Terry che si comportava in modo strano, quegli animali intorno a me, quel freddo percepito quando le avevo stretto la mano e ora il caldo, non fossero situazioni reali. Mi sembrava di vivere in un sogno e che non fosse parte della mia vita. Ma era tutto vero!

Io ero lì, indifeso.

Sì, indifeso, perché se avesse voluto, ad un suo cenno quei cani mi avrebbero sbranato e di me si sarebbero perse le tracce.

Rivoltavo questi pensieri mentre lei mi sospingeva impercettibilmente verso l’ingresso. Mi diceva di stare tranquillo, ma un bagliore profondo aveva attraversato i suoi occhi. Ancora una volta, mi erano apparsi di una luce diversa. Mi sembrava che avessero una tonalità più chiara, quasi giallastra. Stavo per dire qualcosa, ma all’improvviso erano tornati scuri come poco prima.

Quegli occhi avevano qualcosa di sinistro.

L’alto e austero portone di quercia, al nostro avvicinarsi, si era aperto come se una presenza estranea lo avesse azionato. Forse era stata lei a farlo con il suo telecomando, eppure le mani erano libere. Le alte finestre in stile inglese all’interno erano drappeggiate da pesanti tende di velluto damascato che avrebbero impedito alla luce del giorno di penetrare. Un grande lampadario di cristallo a gocce pendeva al centro dall’alto soffitto e diffondeva una luce specchiata. Al nostro ingresso, però, come per incanto le luci si abbassarono. Come se l’arrivo di Terry fosse stata la causa di un calo improvviso della corrente. Solo i candelabri accesi e sorretti da gargoyle, ai quattro lati della sala, emanavano una debole luce.

- Vieni, ti devo far vedere una cosa… di sopra.

- Cosa?

- Non lo indovineresti mai.

Il mistero si stava infittendo e la mia sensazione era giusta. In Terry e in quella casa c’era qualcosa di anomalo. Più passavano i minuti e più mi convincevo di essere finito in una trappola. Mentre salivo l’ampio scalone di marmo rossiccio, appoggiandomi al corrimano di marmo, sentivo le gambe tremare. Dal piano superiore provenivano degli strani rumori, come il gracchiare di tanti uccelli in una jungla ed un vociare sconnesso di pappagalli: quasi una caciara umana in un giorno di mercato.

Alla fine della scala, un ampio ballatoio: alle pareti, alla rinfusa grandi quadri, con cornici dorate, raffiguranti animali e uccelli esotici. Un corridoio centrale conduceva in quattro stanze poste ai lati. Lei aprì la prima porta sulla destra e mi fece accomodare: al suo interno in due grandi voliere svolazzavano uccelli dai colorati piumaggi. In un’altra erano presenti solo pappagalli e uccelli tropicali. A guardia di questa stanza c’era una cornacchia nera come la notte che svettava gracchiando sopra un trespolo dorato.

- Ti piace, questi sono i miei amici!  

- Umm… quanti! – Ma non riuscivo a capire perché ci tenesse tanto a farmeli conoscere.

- Vieni, andiamo di là.

Passammo nell’altra stanza di fronte. Questa era silenziosa, come fosse insonorizzata.

Ma la puzza di guano ammorbava l’aria. Nelle teche di cristallo antisfondamento erano custoditi rettili più o meno grandi che scivolavano lentamente uno sull’altro. Piccoli topolini, custoditi in una gabbia di metallo, erano il loro pasto. Era come uno zoo. E io ero lì, senza aver pagato il biglietto d’ingresso e non potevo andarmene. Ma perché aveva scelto proprio me per farmi vedere tutti questi animali?

- Seguimi. – mi invitava con fare suadente.

- Dove?

- Dai miei nuovi amici.

- Chi sono!?

- Forse li conosci.

- Non credo…

- Vediamo se è vero.

Ero sicuro, come avrei potuto conoscerli! Non ero amante degli animali, anzi, se prima mi davano noia ora non riuscivo proprio a sopportarli. Lei aprì l’ultima porta a sinistra e mi ha fece accomodare. Era una piccola stanza quadrata illuminata da faretti al quarzo. Spoglia senza quadri, senza suppellettili, come se fosse ancora da allestire. Solo con un acquario e con alcuni pesci rossi che, appena entrato, cominciarono a nuotare in cerchio, come impazziti.

Degli stupidi, insignificanti pesci rossi.

In una teca in vetro, una grossa tartaruga di terra faceva capolino da sotto alcune foglie di lattuga. Mi guardò come mi conoscesse e spalancò la bocca minacciosa.

Ebbi un sussulto. Li avevo già visti. Forse erano loro. Proprio quelli di cui mi ero liberato quando mi aveva lasciato Susy. Ma come poteva averli lei? Forse era solo un caso: i pesci rossi sono tutti uguali e anche le tartarughe… si acquistano nei negozi di animali.

- Li conosci, vero?

- Forse, sì…

- Come?

- Anch’io li avevo…

- Hai detto di non averne mai avuti!

- Me ne ero disfatto.

- Non si fa.

- Lo so.

- No, non hai rispetto degli animali!

- Non potevo tenerli…

- Tutti gli animali vanno amati! Come gli uomini…

Forse aveva ragione lei, gli animali vanno amati, però mi davano fastidio e per questo non li volevo tra i piedi. Mi stavo domandando come faceva a sapere dei pesci rossi che avevo buttato nello sciacquone e di quella maledetta tartaruga che avevo lasciato al parco. Sarà stato un caso?

Facevo queste considerazioni e mi guardavo attorno stupito, lei si era accorta e mi fece accomodare nel salone. Ci sedemmo sul divano di pelle rosso amaranto: prese due bicchieri di rhum e mi allungò il mio. E iniziò ad espormi le sue teorie sull’uomo, sugli animali e sull’amore. Cercavo di mettere ordine ai suoi pensieri, ma non riuscivo a capire dove volesse arrivare. La voce era suadente e carezzevole. I suoi occhi avevano perso quei lampi di fuoco. Esprimevano tenerezza e le parole erano cariche di sensualità: mi stavo inebriando di ciò che usciva dalla sua bocca.

Secondo lei ogni persona aveva in sé una parte animale: ognuno di noi si reincarna in esso.

- Tu sei un pesce. Un pesce rosso! – Mi diceva. 

E, anche se non li amavo, mi faceva sentire uno di loro. Un animale acquatico: ma non capivo dove volesse arrivare. Forse, ero suggestionato dal fatto che lei sapesse di me, dei miei pesci e della tartaruga e ciò faceva vacillare le mie sicurezze: le mie velleità iniziali di avere un’avventura con Terry si stavano affievolendo.

E mentre lei continuava ad argomentare, io ero sciolto dalle sue parole, sentivo che qualcosa si stava appropriando di me. Ripeteva che ero come uno di quei pesci che avevo buttato nello scarico. E, così facendo, avevo voluto distruggere me stesso, perché all’improvviso avevo perso l’amore… ma forse avrei potuto ritrovarlo.

Non avevo mai creduto nella reincarnazione, però la sua voce persuadente mi cullava, mi rasserenava. Era come se dondolassi su un’altalena sospinto dalle sue parole ai confini dell’universo. Mi sentivo la testa leggera, in un’altra dimensione. Appoggiai il capo sulla sua spalla e, mentre continuava ad espormi le sue teorie, le sue mani scorrevano tra i miei capelli e la vampa del suo corpo avvolgeva il mio.

L’avrei desiderata, ma il suo comportamento mi aveva frenato. Ora mi sentivo di nuovo attratto da lei. Ero come una piccola barca di carta velina trasportato dalle sue onde che mi avevano sommerso. Terry lentamente aveva iniziato a spogliarmi. Io ero fermo, passivo, non ero in grado di muovermi: avvertivo le sue mani scorrere su di me. Prima sui bottoni della camicia che si aprivano al suo tocco, poi scorrere in basso fino alla zip dei pantaloni. E mentre mi prendeva, i suoi capelli ricci sfioravano il mio viso.

Avrei voluto ricambiare il suo fervore, ma ero bloccato. Semi incosciente come nel lettino di una camera operatoria dopo che ti hanno somministrato l’anestetico. Io ero lì, sentivo e vedevo tutto, ma ero incapace di muovermi. Solo il mio sesso rispondeva alle sue sollecitazioni.

Terry si era sdraiata sopra di me e mi parlava:

- Lo vuoi? Lo so che mi vuoi…

Non ero più sicuro di volerla. 

Il suo corpo sopra il mio si muoveva; pesante come un sacco di cemento, eppure era piccola di corporatura.  I suoi occhi, ancora una volta, avevano cambiato espressione. Le pupille viravano al giallo. I capelli, ricci e neri, lentamente si stavano decolorando fino a diventare come la cenere.

E io lì, disteso sul divano, quasi privo di sensi; avrei voluto urlare, ma dalla mia laringe non usciva fiato. La vedevo mentre si spogliava sopra di me con i suoi seni raggrinziti e cadenti: due zampogne senza aria. La sua pelle era diventata grigia, con la consistenza della carta pergamena.

Un terrore assoluto misto a ribrezzo mi aveva avvolto.

Appoggiò la sua bocca sdentata sulle mie labbra pietrificate. E mentre la sua lingua simile a carta vetrata raspava contro la mia, sghignazzava.

- Ahahah!!! … Ahahah!!! – e continuava a dire: - Lo so che lo vuoi… Lo so che lo vuoi!

Non potevo oppormi, la sua saliva bavosa scorreva tra le mie labbra e come acido muriatico mi stava corrodendo.

Improvvisamente un tremendo tuono, nel silenzio del salone, interruppe il ripugnante amplesso e persi conoscenza.

Il giorno successivo stavo nuotando nella vasca dei pesci rossi. Terry aveva ripreso le sue sembianze umane e si divertiva a gettare il mangime nell’acquario, tra l’indifferenza degli altri pesci che nuotavano con me. Mi stavano intorno come dei piranha e non so se sarei sopravvissuto anche a loro.

Terry intanto stava sorridendo con la sua splendente dentatura e picchiettava sul cristallo. Era in compagnia di un tipo che assomigliava al commesso del negozio di ferramenta: forse era lui e, se fossi sopravvissuto all’attacco dei miei consimili, presto avremo fatto conoscenza.

 

© Franco Duranti – settembre 2017