Mi svegliai di soprassalto. Un improvviso e insolito trambusto, che proveniva dalla strada sotto la finestra della camera, mi fece dischiudere a fatica gli occhi ancora incollati dal sonno. Mi alzai con molta flemma. Le palle mi giravano a mille: era domenica e avrei potuto godere della morbidezza e del tepore del mio giaciglio fino a mezzogiorno e oltre. Mi grattai la testa energicamente come se quello scuotimento avesse il potere di rimettere in movimento i miei neuroni intorpiditi. Scesi dal letto. Il freddo delle piastrelle, sotto i piedi nudi, mi diede un’energica sferzata. Aprii la finestra e scostai pigramente le persiane: all’apparenza, una serena mattina come tutte le altre. Il sole era ancora basso e stava inondando la città di una luce trasparente. L’aria frizzante mi solleticava polmoni pregni del troppo fumo e spalmati dal catrame delle mie Marlboro.

Allungai lo sguardo. Riuscii a scorgere in fondo alla strada, all’angolo vicino al giornalaio, un uomo di bassa statura, con pochi capelli. Stava discutendo animatamente e a gran voce con un tipo ben vestito e più alto di lui. Aveva una voce massiccia e catarrosa, come non fosse la sua. Sembrava che i due stessero litigando, ma forse stavano solo parlando. La cosa non mi turbò più di tanto: in fin dei conti, se questa mia supposizione fosse stata esatta, potevo anche fregarmene. Erano fatti loro.

Quello che mi diede fastidio era solo il fatto che mi avevano buttato giù dal letto. Tutto quel casino mi aveva svegliato bruscamente: quello sì era affare mio e mi aveva impedito di riconciliarmi con il sonno. Ormai, purtroppo se ne era andato, e non sarei più riuscito a riacchiapparlo.

Allora, valeva la pena di alzarsi.

Questo fu il primo impatto che ebbi quella mattina alle sei e dieci di metà agosto.

Decisi di alzarmi e mi trascinai a fatica in bagno per svuotare la vescica, ancora gonfia di birra del sabato sera. Mi appoggiai alle piastrelle e con un senso di piacere mi abbandonai liberandomi. Il flusso abbondante e scrosciante aveva lasciato sul fondo del WC una densa schiuma bianca, simile a quella soffice e spumosa delle birre doppio malto che mi ero scolato quella notte al pub.

Transitando per il corridoio, davanti allo specchio dell’ingresso, mi venne voglia di sputare a quel tipo che mi stava davanti. In quel momento, avevo bisogno solo di un caffè. Un caffè forte. Uno di quei caffè che ti aiutano a riconciliarti con il mondo e ti danno la carica per affrontare la giornata.

Andai in cucina, accesi il gas per preparare la moka. Il barattolo del caffè macinato era vuoto. Sul fondo solo una misera traccia di polvere nera: come tante minuscole cacate secche di mosche. Quei fondi non sarebbero stati sufficienti per fare qualcosa che assomigliasse anche vagamente ad un caffè. Mi ero dimenticato di acquistarlo. E questo era uno dei tanti inconvenienti della vita da single...

Non mi persi d’animo, mi sciacquai il viso con l’acqua fresca e mi vestii in fretta. Dovevo ricaricare le batterie immediatamente. Il vecchio bar Trieste era lì vicino e mi stava aspettando.

Quel locale a due passi dalla stazione, un po’ atipico e fuori moda; appena ti affacci per la prima volta, non ti rendi conto del suo valore. È come entrare in un museo della memoria, così stracolmo di vecchi utensili perlopiù misteriosi e impolverati. Quegli attrezzi da lavoro, appesi alle pareti, ti sovrastano e sono lì a testimoniare una civiltà contadina e artigiana che non esiste più. E tutta quell’accozzaglia di oggetti riconduce al passato, ci documenta che una volta il lavoro veniva fatto proprio con quegli arnesi rudimentali.

Dunque ero lì, in quel bar. E, a parte il gelato che è rinomato in tutta la valle Esina, sanno fare anche un ottimo caffè espresso forte, come si deve. Profumato, denso e solido, con la crema che rimane incollata al cucchiaino. E per me, in quel momento era quello che ci voleva.

La città lentamente si stava destando e il viale Trieste era ancora semi deserto: solo qualche sporadica auto ogni tanto scorreva lenta tra le file dei tigli che tracciano la strada. Un autobus senza passeggeri aveva iniziato la sua corsa a vuoto verso la stazione. Certo, la gente a quell’ora, di domenica mattina, di solito dorme. Solo io ero stato scaraventato a forza giù dal letto.

Ero uno dei primi clienti… il profumo penetrante di caffè testimoniava che la macchina era già in pressione e stava facendo il suo dovere. Quell’aroma avvolgente in parte mi aveva già riappacificato con il mondo.

Non ero il primo cliente, in fondo alla sala avevo riconosciuto quel tizio basso e pelato che avevo scorto affacciandomi dalla finestra della camera. Lo stesso tipo che poco prima, con la sua voce roca e catarrosa, mi aveva buttato giù dal letto. Era lì, da solo, seduto al tavolo e stava scorrendo le colonne del Corriere Adriatico. Non si avvide della mia presenza. Si accorse solo quando ordinai il mio caffè. Solo allora alzò gli occhi dal giornale e mi accennò un sorriso forzato alzando appena gli angoli della bocca. Dal momento che mi aveva svegliato, avrei voluto fare a meno d’incontrarlo, ma ormai ero lì e, per gentilezza, dato che era l’unico cliente a parte me, gli chiesi se avesse gradito un caffè.

“Sì, grazie, un Borghetti” – mi abbaiò contro e riabbassò gli occhi per farli di nuovo scorrere sulle cronache locali.

L’anziana barista, con un’alzata di spalle mi sorrise e preparò il mio espresso con cura: corto come al solito e con la schiuma alta, morbida e setosa. Poi appoggiò sul banco il bicchierino di Caffè Sport, nero come la pece per il tipo. Glielo portai al tavolo e mi ringraziò senza troppa enfasi. Dopo averlo vuotato con avidità facemmo le presentazioni di rito.

Mi presentai: “Francesco Sanviti”. – “Grazie Francesco, questo non lo rifiuto mai…”

E aggiunse: “Che lavoro fai?” – con la sua voce arrochita, staccando lo sguardo dal quotidiano.

Lentamente il vecchio si stava sciogliendo. Forse quel bicchierino scuro come l’inchiostro che gli avevo offerto lo aveva rianimato dal suo torpore.

“Lavoro alla Caterpillar, sono carrellista, ma sono laureato in filosofia…” – gli risposi.

Si presentò e riuscii a capire a malapena il suo nome: Guglielmo Greganti e la qualifica, capomastro. Le sue mani nodose, massicce e ruvide erano la conferma del suo duro lavoro manuale. La tensione di poco prima si era diluita, ma le parole che pronunciava gli uscivano di bocca a fatica: impastate come sabbia e calce in una betoniera.

Rimanemmo lì a parlare di noi come ci conoscessimo da molto tempo, mentre io ero lì soltanto da alcuni minuti. Lui mi raccontò del suo passato e io del mio noioso lavoro che, nonostante la mia laurea, ero costretto a fare per sopravvivere. Lui aveva costruito case e palazzi, lastricato strade e piazze, incollato pavimenti e rivestimenti. Mentre io a ventisei anni, per campare dovevo stare seduto sul mio muletto giallo e girare come una trottola per il capannone sollevando casse di pezzi d’acciaio e tubi da saldare e consegnare poi ai vari reparti.

“In tutto questo c’è qualcosa che non funziona.” – mi disse il vecchio con una vena di profonda verità. Aveva ragione, nonostante le parole le uscissero di bocca distorte e imbrattate dal Borghetti. A nulla mi era servito leggere Socrate, studiare Nietzsche, Kant, Cartesio, Shopenhauer.  

La mia laurea in filosofia era come carta straccia.

Appena se ne fu andato, venni a sapere dalla vecchia barista (somigliava anche lei a un pezzo d’antiquariato) che, a modo suo, anche lui era un filosofo dell’edilizia. Ma da sempre, aveva avuto un brutto vizio, quello del bere. In gioventù, aveva l’abitudine di bazzicare tutte le osterie della città. Poi quando quelle per furono chiuse, per via del progresso che inesorabilmente stava avanzando, prese a frequentare i bar della città alla ricerca di qualcuno che gli offrisse la bevuta.

Il vecchio era un ex muratore di settantadue anni, ma ne dimostrava almeno quindici di più. Per lui, il lavoro era stato solo un passatempo. Quando era più giovane, gli capitava spesso di lasciare i cantieri nei quali prestava la sua opera. A metà mattina, oppure nel primo pomeriggio, quando il fiasco del vino era vuoto, improvvisamente smetteva di fare un tramezzo o un intonaco, dicendo che aveva un affare urgente da sbrigare. Allora il filosofo della costruzione si dileguava: spariva per un po’ come un fantasma, ma l’affare urgente era andare all’osteria, e magari fare una partita a briscola. E, quando riprendeva l’opera interrotta, il più delle volte era da rifare: i muri erano storti, malfermi e fuori asse e gl’intonaci si staccavano.

Era conosciuto in tutta la città come un bevitore di prim’ordine. Ma adesso che era in pensione e le osterie tutte chiuse, frequentava solo i bar e beveva esclusivamente Borghetti.

Quella mattina, con quello che gli offrii, era già il terzo Caffè Sport che si era scolato. Io avevo avuto il piacere di offrire da bere a un mio collega: un filosofo della costruzione. Chissà, forse anch’io, se continuerò a girare su quel muletto giallo potrei diventare un alcolizzato come lui che inconsapevolmente mi aveva buttato giù dal letto.  Quel filosofo noto a tutti in città, tranne che a me, con il soprannome Gujè de Foetta.