Quella volta che rividi Margherita rimasi attonito, ma forse sbalordito è la definizione più giusta per esprimere il mio stato d'animo di quel momento. Erano trascorsi più di quindici anni da quando lei frequentava la nostra casa in via delle Terme. Era un’amica di Sara, mia sorella e giocavano insieme. Fatti i dovuti calcoli, avrebbe dovuto avere un'età approssimativa di circa ventisei o ventisette anni al massimo. La stavo osservando con la coda dell'occhio mentre sorseggiavo, appoggiato al bancone del Bar Snoopy, il mio terzo Negroni. Il fumo della sigaretta che spiralava intorno ai miei occhi mi rendeva lo sguardo incerto, e forse anche l’alcol aveva appannato la mia mente. Però, qualcosa mi diceva che quella ragazza fosse lei. I tratti generali del suo volto erano pressoché identici ma avevano quella maturità che solo il tempo può dare. La sua bellezza era paragonabile a quel tipo di ragazze che frequentano i set di moda. Però, non quelle modelle magre e anoressiche che si vedono sulle pagine patinate delle riviste femminili. La sua era una bellezza viva, fatta di forme morbide, curve ben modellate, dove ogni linea si fondeva armoniosamente con il resto del corpo. Me la ricordavo acerba, non immaginavo che sarebbe sbocciata così… “esplosiva”. Le sue labbra piene e i suoi zigomi alti le davano un aspetto decisamente sicuro, come di una che sappia cavarsela in ogni situazione. Insomma, per farla breve, ero di fronte ad una donna con tutti gli attributi, e messi al posto giusto. Quel genere di donne mi affascinano. Anzi, mi fanno perdere la testa.

Stava conversando al bancone, mentre sorseggiava il suo long drink, con un tipo che sembrava essere il suo boy-friend. Parlavano con un tono di voce basso e, nonostante la distanza che mi divideva da lei fosse di circa tre metri, mi era difficile capire se stessero tubando o meno. Ma sicuramente non parlavano di finanza o di teoremi matematici. Lui la stava divorando e le lanciava strali con lo sguardo filtrato dai suoi Ray-Ban sfumati. Lei di rimando gli rilanciava delle occhiate ammiccanti e compiaciute, inframezzate da brevi risatine che lasciavano presupporre ad una complice intimità. La osservavo facendo finta di nulla. La guardavo, mentre il passeggio del corso scorreva lento. Lei non aveva badato a me, era troppo presa dal tipo biondo. Non ci crederete, ma qualcosa dentro di me si stava già muovendo e pensavo che avrei voluto trovarmi al posto di quel tipo slavato.

Decisi di prendere coraggio e mi avvicinai facendomi forza, anche grazie all'alcol che si era depositato nel mio stomaco e che lentamente stava affluendo verso il mio cervello. Quindi mi lanciai nell'approccio: dopotutto già ci conoscevamo. Mi avvicinai: "Margherita?" - chiesi. Lei mi guardò perplessa, come per dire: "e questo adesso che vuole?" E, girandosi mi fulminò con i suoi occhi verde smeraldo: "Si, ci conosciamo...?" Evidentemente non mi aveva ancora messo a fuoco. Gli anni erano trascorsi inesorabili, e i miei novanta chili erano ben lontani dai settanta di quando ne avevo venticinque e lei girava per casa nostra con i lunghi calzetti di cotone. "Ciao sono Rocco, il fratello di Sara... non pensavo di rivederti dopo tanto tempo".

Certo! Adesso, si ricordava! Come poteva avermi dimenticato. Sara mi aveva rivelato che in quegli anni Margherita si era innamorata di me nonostante io continuassi ad ignorarla. Ma allora frequentavo le ragazze della mia età, avevo altre idee per la testa e Margherita non occupava i miei pensieri. Adesso, in quel bar lungo il Corso di Jesi, dopo tanti anni mi aveva riconosciuto. Mi aveva accolto come se ancora occupassi un posto recondito nel suo cuore. Il suo abbraccio deciso ne fu la conferma. Forse non mi aveva dimenticato del tutto. Cosa stavo fantasticando? Come potevo pretendere che ancora potessi occupare quel posto? Adesso era con quel tipo e di sicuro ci andava a letto. Io sarei stato di troppo.

Dopo i convenevoli di rito, la mia posizione stava assumendo il ruolo di terzo incomodo. Però, all’improvviso squillò il cellulare del suo amico e lui, si allontanò da noi. Uscì dal locale e si diresse sotto le logge.  Finalmente io e lei.  Uno di fronte all'altro. “Come stai…? ti trovo bene!” -  mi dice - Le confermo: “Anch'io ti trovo bene” - “…non sai quanto ti ho pensato.” - mi dice penetrandomi ancora una volta con i suoi pugnali. “Chi è, il tuo ragazzo?” - “Si, stiamo insieme da qualche mese” - “Scusa non volevo essere indiscreto” - “No, non lo sei…, ma tu che ci fai qui a Jesi? …pensavo te ne fossi andato” - “Ho uno studio associato d'architettura.” - “Hai sfondato nella tua professione...” - “Come lo sai?” - “Ho visto il tuo nome in alcuni tuoi progetti…, sapevo che eri tu.” - “Non parliamo di me. Quando possiamo vederci?” - “Quando vuoi, ti lascio il mio numero.” - “Che fai, hai sempre a che fare con l'archeologia?” - “Come fai a saperlo?” - “Sara mi ha informato…” - “Allora non ti sei dimenticato di quella ragazzina che veniva a giocare in piazza del Duomo?” - “Non sei più una ragazzina... sei una donna a tutti gli effetti.” - “Già! Gli anni passano...!” - “Ma parlami di te…” - Che ti dico, che sono tornata da poco dalla Tunisia, e sono venuta a salutare i miei.” Poi aggiunse “…il tipo che è al telefono è un mio collega. Lavoriamo agli stessi scavi.” - Mi lanciai e glielo dissi finalmente: “Quando possiamo vederci da soli? Senza il tuo amico… Ah! eccolo che torna…” - “Ti chiamo io, adesso ho il tuo numero.” Il breve incontro terminò con la promessa di risentirci presto.

Un veloce saluto e, mentre con lo sguardo la seguivo, era già fuori dal bar Snoopy. Il suo amico biondo la stava sospingendo fuori come se qualcosa di drammatico fosse accaduto.
Non mi restava che attendere la sua telefonata.
Il barman mi stava occhieggiando, come se avesse capito che quella ragazza mi aveva sorpreso. “Preparami un altro Negroni… grazie!” e strizzandogli l’occhio aggiungo: “Alla sua salute e alla mia!”

***

La primavera inoltrata stava prendendo il posto del grigiore invernale. Le giornate, sempre più lunghe e calde mettevano voglia di nuovo, di vita, d'amore. Tranne che per me. Qualcosa mi bloccava, mi impediva la concentrazione. Erano passati ormai dodici giorni dal nostro incontro casuale in quel bar, e Margherita non si era fatta più viva. Il suo cellulare squillava a vuoto. “La persona che sta cercando potrebbe avere il cellulare spento o non raggiungibile” - Che si sia presa gioco di me? Che le sia capitato un imprevisto? – Mi chiesi. Dopo quella telefonata caotica del suo amico era scomparsa dalla scena e dalla mia vita, con la stessa velocità con cui era apparsa.
In quei giorni di buio totale era diventata un pensiero costante: galleggiava nella mia testa come mina vagante.
Come un sassolino si era insinuato tra gli ingranaggi della mia mente, e mi impediva di essere razionale.  In studio non riuscivo a produrre più niente che fosse all’altezza di quel premio che mi era stato conferito solo pochi mesi prima. Mi sembrava di non averlo meritato, mi sentivo un invertebrato. I miei collaboratori stavano tirando avanti i miei lavori. Per fortuna loro, i miei colleghi. Avevano capito che era una storia di cuore... ma, per un certo timore reverenziale verso il loro capo, non mi chiedevano nulla. Si auguravano che presto la bufera sarebbe passata.
Trascorrevo le giornate saltando dal bar Snoopy, dove ci eravamo incontrati per caso, al caffè Bardi. Con la vana speranza di rivederla ancora lì. Il suo numero non compariva mai sul  mio display. Arrivavo a fine della giornata con la testa imballata, come un motore fuori giri. Andavo avanti a birra e Negroni: mi illudevo che potessero riempire quel vuoto lasciato da lei. Il suo telefono era staccato e il mio - quel maledetto telefono - squillava solo per le beghe. Qualche fornitore o qualche impresa edile che richiedeva il mio intervento nei cantieri. Solo rotture di coglioni. Stavo odiando tutto e tutti, ero diventato intrattabile.     
Solo quella ex ragazzina, amica di Sara, avrebbe potuto rimettermi in carreggiata.
     
Quando finalmente mi raggiunse la sua telefonata ero uscito da poco dalla doccia. Una cascata d'acqua fredda, come una frustata gelida, aveva rimesso in moto la mia mente e il corpo intorpidito dall'alcol. “Pronto?” - “Ciao, sono io... volevo chiederti scusa!” - La sua calda voce, un po' incerta, aveva fatto accelerare i battiti del mio cuore. “Perché non ti sei fatta più sentire?” - “Non ho potuto…, mi dispiace.” - Ora la voce era strozzata.  “Aspettavo di risentirti prima, ero in ansia” - “Anch'io avrei voluto…” - “Non ti preoccupare!” - “Credimi, ho avuto un contrattempo...” - la interruppi: “Ti credo... certo!” – Poi lei riprese: “Il mio amico Peter...” e scoppiò in un singhiozzo.  “Il tuo amico?” - “Si, dopo quel giorno in cui ci siamo visti... Peter si è suicidato!”  - “Oh...! Cristo!” - Un tonfo in fondo allo stomaco: un sacco di piombo si era depositato nelle mie viscere. Provai a dire qualcosa e lei mi anticipò: “Non volevo...” - “Cosa non volevi?” - “Niente, sono a terra…” - “Mi dispiace, non so che dire... ma perché?” - “Non so... perché l’ha fatto.” - continuò singhiozzando.  “Dove sei, possiamo vederci?” - “Sono a Venezia, ma devo ripartire per la Tunisia.” - “Vediamoci, ti scongiuro!” - “Domattina parto, ho l'aereo per Roma”. Cercai di fermarla: “Devo vederti, ti prego... ti raggiungo, ti devo parlare.”  - “Sono a pezzi... ti ho chiamato perché volevo che lo sapessi.” - “Ti prego, anch'io sono a terra, volevo salutarti prima che te ne vai.” - “Sono alloggiata al San Marco Palace.” - “Ok, parto immediatamente! quando arrivo ti cerco alla reception... tra quattro ore, al massimo, sono da te!”
     
Ero rimasto impietrito. Quella notizia mi aveva gelato. Non riuscivo a capire il perché di quel gesto estremo. Mi vestii in fretta, saltai sul mio Suv e in poco più di quattro ore arrivai a Venezia. Alla reception chiesi della signorina Margherita Molinari. Il portiere mi annunciò, e dall'altra parte del filo lei dice di farmi salire: stanza 134 - 2° piano. Bussai, lei mi aprì. Aveva lo sguardo vuoto, e i suoi bellissimi occhi verdi erano appannati dal dolore. Anche senza quel filo di trucco era incantevole! Mi abbracciò e cominciò a singhiozzare di nuovo. “Come stai?” - le chiesi. Sentii il calore del suo corpo contro il mio petto. Non mi rispose. Il groppo alla gola le bloccava le parole, riuscì a masticare: “Grazie, per essere venuto” -
Mi trovavo in quella stanza d'albergo, senza sapere nulla del dramma che l'avvinghiava. Volevo capire. Perché Peter si fosse suicidato? O forse volevo starle vicino e consolarla. Oppure, ero io che volevo essere consolato da lei? Avrei voluto sentirmi dire che ancora mi amava... Ma, dopo quello che era capitato, come potevo pensare che ancora fosse attratta da me?
Lei si accomodò sul divano e asciugandosi le lacrime con il dorso della mano, si sfogò: “È stata solo colpa mia…! per quello che è successo.” - “Perché dici questo?” - “Peter era fragile... non dovevo dirgli che ero innamorata di te!” Incredulo a quello che mi aveva confrmato, feci fatica a mettere in fila i miei pensieri. Mi sembrava che la situazione che stavo vivendo, in quella stanza d’albergo, fosse irreale. Lei, asciugandosi gli occhi, continuò: “Non ha retto l'impatto, e ha preferito farla finita.” - La guardai e cercai di consolarla: “Non è colpa tua se Peter era fragile!”
L'aveva detto: era innamorata di me!
Le accarezzai i capelli, e percepii il suo profumo . Lei appoggiò il viso sul mio petto. La sentii sospirare, come se quel dolore che aveva dentro la stesse divorando.  Le sue lacrime stavano bagnando la mia camicia di lino bianca. Avrei voluto baciarla ma il suo stato confusionale mi aveva frastornato. Eppure, adesso lo sapevo: mi amava. L’ amore che, dopo tanti anni ancora stava provando per me, senza che lo immaginassi, era stata la causa scatenante di quella tragedia.     
E, anch'io mi sentivo complice involontario di quell'evento. I suoi singulti lentamente si affievolirono. Estrassi il fazzoletto dalla tasca e glielo porsi. Mi guardò e ancora una volta mi trafisse.
     
Non potei fare a meno di avvicinarmi alla sua bocca. Inevitabilmente le nostre labbra s'incontrarono e si unirono in un caldo bacio. Piano, piano le nostre lingue cominciarono a sciogliersi e a intrecciarsi.
     
Margherita, come una tarma, lentamente stava divorando il mio cuore.

***

Come andò a finire quell’incontro? Credo che sia chiaro: andammo a finire a letto, e questo potrebbe sembrare scontato. Però non lo fu affatto. Ero rimasto completamente sconvolto da quello che era successo. Finalmente ero riuscito a capire il perché della sua sparizione in quei dodici lunghi giorni. Si era trovata, all’improvviso da sola e a gestire una storia molto più grande di lei. Dal momento che loro si frequentavano, aveva dovuto rispondere alle tante domande della polizia e firmare verbali.  Avvisare i suoi parenti ad Amsterdam, inoltre sbrigare pratiche per l’estradizione e accompagnare la salma in Olanda.     
Era distrutta, e quel rimorso che le rodeva l’anima l’aveva resa fragile. La mia solidale presenza al San Marco Palace le aveva ridato la forza di proseguire. La mattina dopo l’avrei accompagnata a Roma, per il suo volo diretto a Tunisi.
     
Forse, quella sera non sarei dovuto finire sotto le lenzuola con lei. Ma gli eventi e la casualità hanno dimostrato il contrario. È stato inevitabile. I suoi abbracci e le sue lacrime, che continuavano a scivolare lente sulle sue gote, hanno fatto il resto.
     
Era come se quel dolore che sgorgava impetuoso avesse catalizzato le nostre menti e i nostri corpi. Mentre le asciugavo quelle stille di dolore e cercavo di frenare i suoi singhiozzi, inesorabilmente le carezze divenivano sempre più cariche. Percepivo le sue mani scorrere sulla mia schiena come se cercassero un appiglio. E, le sue dita affusolate, accarezzarmi la nuca. E mi lasciai andare. Mi feci sedurre da quella ragazzina, ormai donna, che quindici anni prima si era innamorata di me. E ora, io mi stavo innamorando di lei.

     La passione ci travolse, in quella camera d’albergo, come un’onda anomala. Ci aveva scaraventati entrambi alla deriva: tra le macerie di quello tsunami che aveva travolto tutto. Anche la nostra esistenza. Eravamo come due naufraghi, che ci aggrappavamo uno all’altro, alla ricerca disperata della salvezza. Due naufraghi, che si tenevano abbracciati per non affogare in quel mare di disagio e di disperazione. Ero stato il suo amore celato per tanto tempo, troppo tempo. Fino a quella sera che la incontrai, per caso a Jesi, in quel bar lungo il Corso, con Peter. Non avrei immaginato nulla di quello che sarebbe successo. Solo quando ci scambiammo i numeri di telefono compresi quanto non sapevo che ancora innamorata di me. I suoi occhi mi avevano trasmesso quel codice d’amore che non avevo captato.     
Solo quel momento, mi resi conto di quanto la sua improvvisa sparizione mi avesse spiazzato.
     
Ora, Peter non c’era più. Era sparito in modo tragico dalla nostra vita. Come se avesse voluto togliere il disturbo per quella sua presenza, quasi, inopportuna tra noi due.
     
Lentamente il fiume delle sue lacrime si prosciugò come risucchiato da una voragine sotterranea. I suoi occhi verdi, ancora lucidi dal pianto, continuavano a trafiggermi come due lame d’acciaio: “Perché?” - mi disse, mentre la stringevo tra le braccia. - “Cosa, perché”? - “Rocco, perché mi hai stregato…?” - “Zitta, baciami! tu mi hai ridotto così”. E riprese a cercare avida la mia bocca. “Quanto tempo perso in questi anni…!” - continuava a parlare senza tregua - “…era te che volevo… era te che volevo!” - “Adesso sono qui, non parlare.” Tutta la sua bramosia mi stava avvolgendo come un caldo mantello di cashmere.
     
Quella fu una notte indimenticabile. Stavo già preoccupandomi di come avrei affrontato la mia sciatta vita senza di lei. Ok! Il lavoro dello studio mi gratificava, ma nella vita sentimentale ero una frana. A quasi quarant’anni non avevo trovato ancora una dimensione affettiva da farmi sentire a posto. Continuavo ad avere incontri occasionali: con le mie giovani assistenti, e con donne sposate in cerca di nuove emozioni. Quando ero a secco di compagnia ero disposto anche a pagarle. Certo, puttane di lusso, ma pur sempre amore a gettone.
     
Da lì a poche ore, la ragazzina che per tanto tempo aveva atteso il mio amore, sarebbe sparita di nuovo dalla mia vita. Sarei rimasto ancora una volta solo, nella mia città. Solo, senza amore. Non potevo lasciarla andar via così, mi aveva stregato. Non avrei retto ancora una volta alla sua sparizione. In quel’attimo avevo compreso il gesto di Peter. Quel gesto estremo che pur di non perderla l’aveva spinto a togliersi la vita.
 
La storia tra noi due era cominciata quella notte e non poteva finire di nuovo. Il nostro amore, ma soprattutto quello che lei provava per me, era vivo palpitante. E io, non me la sentivo di prenderla come una delle mie tante storie di letto. Era stata una sensazione fatata, aver scoperto che lei, ancora, mi portava nel suo cuore da tanti anni. Non avrei mai immaginato che quell’amore, rimasto sopito per tanto tempo, fosse esploso come in quella notte. 
Mancavano solo poche ore alla sua partenza. Che avrei fatto? Avrei abbandonato tutto e l’avrei seguita fino in Tunisia? Avevo ancora poche ore per decidere e forse la notte mi avrebbe consigliato per il meglio.     
La mattina dopo mi svegliai prima di lei, mancava poco alle sei. Mi fiondai sotto la doccia. Alle sette e trenta avremmo lasciato la camera e l’avrei accompagnata a Roma per il volo per Tunisi. Nel sonno mi era arrivata l’illuminazione: sarei partito con lei.
     
Mentre andavo in bagno, lei stava ancora dormendo rannicchiata come un cerbiatto nel suo giaciglio. Era ancora in posizione fetale, come quando avevo aperto gli occhi. La sua pelle liscia e tesa era ancora odorosa di essenze del nostro amore. Avrei voluto possederla e amarla ancora, ma il tempo era contro di noi e l’aereo non avrebbe aspettato. A Tunisi avremmo continuato la nostra incredibile storia d’amore.
     
Lo studio d’architettura di Jesi?  Avevo dei collaboratori in gamba. Li chiamai per avvisarli che sarei partito per un breve periodo. Per un po’sarebbero riusciti a sopravvivere anche senza di me. Poi, avrei deciso sulla mia vita.
     
Al suo risveglio le comunicai la mia decisione, mentre si stava stiracchiando come una gattina. Con i suoi occhioni verdi sgranati mi guardò incredula: si mise a singhiozzare di nuovo. Non era un pianto di disperazione, ma di felicità. Finalmente aveva ritrovato il suo amore segreto di quindici anni prima!

E io, probabilmente, avrei smesso di saltare da un letto ad un altro!

 

© Franco Duranti - 2015