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   Sono trascorsi ormai sei anni da quando quella ragazza magra, con una cascata di capelli biondi come il grano maturo, ha cambiato la mia vita.

     Ero arrivato, qui in Italia, pieno di speranze e di aspettative, come tutti quelli che, come me, avevano intrapreso quel viaggio.

Il mio nome è Akim, sono uno dei tanti immigrati che ha fatto rotta verso un continente dove non c’è guerra. Dove i bambini non muoiono di fame e di stenti come nel mio paese.

     Quando aprii gli occhi e vidi per la prima volta Letizia, ero disteso, privo di sensi, in un letto con le lenzuola bianche, candide. La mia pelle nera era in contrasto con tutto quel candore immacolato. Il verde inusuale dell’iride dei miei occhi, si incontrò fatalmente con l’azzurro dei suoi. Quelli di un angelo. Immagino che fu proprio l’insolito colore dei miei occhi impauriti a fare breccia dentro di lei. È raro vedere un nero che viene dal Mali con gli occhi verdi come il mare.

     Ero quasi morto: credevo di non farcela. Non sapevo nuotare, come la maggioranza di quella gente che era con me.  Il mare, non l’avevo mai visto prima. Lo scoprii, per la prima volta quando mi imbarcai sulle coste della Tunisia, con lo stupore di un bambino di ventisette anni. Prima di allora, per me come per la maggior parte di quei disperati, era solo quello stampato sui manifesti. Sembrava così bello e così azzurro...

Quando salpammo era calmo e accogliente.

     Eravamo ottantacinque disperati, in quel giorno di metà ottobre, su quel barcone fatiscente. Tutti infreddoliti e frustati dagli schizzi d’acqua gelida che continuava a bagnare i nostri miseri abiti.

Trentacinque uomini, il resto donne e bambini: terrorizzati da quelle onde che con il passare delle ore diventavano sempre più minacciose, sempre più alte. Quelle onde che sbattevano violente sullo scafo e ci facevano balzare come fuscelli. Tanti miseri fuscelli nel Mediterraneo. Staccati dal loro ramo e messi in balìa su quel guscio di noce. Tutti spogliati della loro dignità e delle loro radici.

     In quel maledetto viaggio di speranza, ventitré furono i morti. Undici bambini, strappati dalle braccia delle loro madri.

     Molti di loro senza un nome, sono seppelliti nel cimitero di Lampedusa con una croce di legno a ricordare un’anima volata in cielo.

Io fui uno dei fortunati che riuscì a vincere la tremenda forza del mare.

* * *

     La mia vita cambiò da quel giorno che aprii gli occhi e m’imbattei con quelli di Letizia. Ora lei non è più a Lampedusa, ha smesso di fare il volontariato quando è nata Maria. Questo è il nome che abbiamo dato a nostra figlia.

Il nostro angioletto biondo ha cinque anni e porta lo stesso nome di mia madre che ho seppellito poco prima di intraprendere quel viaggio. Se la malattia e l’infezione non l’avesse portata via così in fretta, di sicuro non l’avrei lasciata laggiù. Ero rimasto solo io ad occuparmi di lei, dovevo rimanere. I miei tre fratelli e mia sorella erano partiti dal Mali pochi mesi prima che lei spirasse. Volevano un’esistenza migliore. Credo che l’abbiano trovata, mi auguro come la mia. Ora, sono sparsi per l‘Europa: chi in Francia, chi in Inghilterra.

     La nostra vita ha iniziato a scorrere in un piccolo paese dell’entroterra marchigiano, Serra San Quirico. Il paese dove è nata Letizia. Per me, oggi, è come trovarsi in una favola. Abitiamo in un minuscolo appartamento ristrutturato del centro storico.

     Ho profuso tutte le mie energie e tanto, tanto sudore per rendere la nostra casa accogliente. Per noi, adesso, è una piccola reggia, con il panorama che ogni giorno muta. I boschi e le montagne che ci circondano infondono un senso di pace, di serenità: cambiano colore e fisionomia con il passare delle stagioni e delle ore della giornata.

     Se chiudo gli occhi, però, mi rivedo in mezzo ai colori polverosi, alle immense savane della mia terra. E mi appaiono le infinite distese di sabbia tagliate dal fiume Niger, i villaggi e le case di fango. I bambini magri e denutriti. La miseria e la dignità del nostro popolo. E allora, mi domando: - Perché sono scappato dalla terra dei miei avi Bambara?

La guerra, la fame: questa è stata la risposta ai miei dubbi.

Ma quando mi alzo e guardo mia figlia, allora, penso che forse la mia vera vita doveva essere qui, in Italia, accanto a loro: i miei due Angeli. Non nell’Africa sub sahariana da dove provengo.

Mi guardo riflesso nello specchio mentre mi rado la barba e dico: sono io, Akim. Lo stesso Akim che viveva in Mali, e che ora accompagna tutte le mattine Maria alla scuola materna.

È dura per lei alzarsi. Vorrebbe ancora fare le fusa sotto le coperte con il suo Billo, l’inseparabile, spelacchiato orsetto di peluche. Poi, apre gli occhi e vuole giocare con me, fingendo di essere, lei, la mamma di Billo e accudirlo; mentre io dovrei di essere il papà dell’orsacchiotto che lo esorta ad uscire dalle coperte. Finalmente, alla fine della drammatizzazione riesco a convincerla e andiamo tutti e tre a fare colazione. Io, Maria e Billo e ci troviamo seduti davanti ad una tazza di latte caldo e biscotti. Questo tutte le mattine, quando Letizia sta finendo il suo turno di notte all’ospedale di Fabriano.

     Prima di entrare a scuola, ci abbracciamo stretti stretti e ci salutiamo sull’arco della porta. Anche Billo mi fa il saluto con la zampa ciondolante. La consegno alla maestra Severina che, per mano, l’accompagna in classe; saltellando se ne va felice e con la manina continua a farmi ciao.

     L’insegnante dice che non risente del diverso color nocciola della sua pelle: i bambini non fanno caso alle diversità. Avevo timore per Maria, credevo che per il suo colore fosse discriminata.

Il mio angioletto mulatto ha gli stessi miei occhi: verdi come il mare Mediterraneo che avevo attraversato. I suoi capelli biondi e riccioluti li ha presi da Letizia.  

Lavoro in una piccola falegnameria artigiana a valle del centro storico, dove si producono mobili su misura, s’impagliano sedie e si eseguono piccoli lavori di ebanisteria. Il mio capo, Ernesto, ha stima di me. So fare il mio mestiere e mi vuole bene. L’avevo imparato a Bamako, in una fabbrica di mobili che esportava arredi e artigianato africano in Europa. Lavoravo tante ore al giorno per guadagnare solo pochi franchi. Facevamo la fame, eravamo in tanti in famiglia e la sabbia della savana non poteva certo sfamarci. A scuola, avevo imparato anche l’inglese e il francese e questo mi è stato utile.

Ernesto è un brav’uomo. Alla bella età di settantacinque anni è ancora molto attivo e ancora tira avanti la sua bottega con passione. Non è sposato e non ha figli a cui affidare l’attività.  Dice che quando smetterà, vorrebbe lasciarmi la falegnameria.

     Sarebbe veramente un sogno avere una bottega tutta mia, con tutte quelle attrezzature di cui è dotata: pialle a spessore, seghe circolari, torni, frese e trapani.

È veramente un brav’uomo, si è affezionato a me perché sa che amo Letizia:  è come una figlia. Al suo battesimo le fece da padrino e così pure quando è nata Maria. Il padre di Letizia morì presto, aveva solo quarantacinque anni ed era stato il suo più grande amico. Ora Ernesto, per Maria, è più di un nonno e per me è come un secondo padre. Non è solo un datore di lavoro.

Mi chiama Mika, che è l’anagramma del mio nome. Dice che così gli viene più facile, e io lascio che mi chiami Mika.

La domenica, molte volte, lo invitiamo a pranzo nella nostra piccola reggia. Lui e la sua donna. Ernesto sostiene che, lei, Malvina gli tiene in ordine la casa e gli stira. Ma, tra i due, ci dovrebbe essere qualcosa di più intimo, anche se non dormono sotto lo stesso tetto.

Puntualmente, la domenica, Ernesto arriva con il suo vassoio di paste fresche, avvolto in carta rosa e infiocchettato con il nastro blu che consegna a Maria.  Lei lo ringrazia con un bacio sulla guancia, fresca di rasatura. Intanto, mentre Letizia armeggia tra i fornelli, la casa è invasa dal profumo delle lasagne al forno. 

Letizia in questo paese ha avuto il coraggio di rompere gli schemi. All’inizio della nostra storia, non ha avuto vita facile in paese e ancora sta pagando la sua coraggiosa scelta di vita. Molti dei suoi vecchi amici l’hanno scaricata. Ma forse quelli non erano i veri amici, erano solo persone che non conoscono il significato di amore. Figurarsi! Una ragazza che abbandona il suo paesello e va a fare volontariato presso il centro di Lampedusa: in mezzo a quei disperati. Una giovane donna bianca, che addirittura s’innamora di un “negro” e con il quale ha avuto una figlia…

Mi raccontò di quella telefonata ricevuta da Fabiana, la sua amica parrucchiera.

Mi disse che si presentò così: «Ciao, sono Fabiana,  quando vieni a trovarmi e mi racconti…».

Letizia rimase spiazzata da quell’intrusione. Era da poco rientrata in paese, dove già si sparlava di noi. Le chiacchiere volavano veloci. Lei aveva il pancione: era al quinto mese di gravidanza. Letizia è minuta, e la rotondità del ventre si notava, ma non intendeva certo nasconderla.

Le rispose laconica: «Della pancia?»

E lei: «Allora sei incinta! Qui in paese dicono che il padre sia quel negro… è vero?»

Lei, per un attimo rimase gelata. Non sapeva se sbatterle giù la cornetta. Forse non avrebbe mai capito: anche a scuola non era un’aquila Ma, forte delle sue convinzioni Letizia continuò: «Akim, si chiama Akim e non chiamarlo negro!».

Fabiana, poi si corresse: «Non volevo certo offenderlo…»

«Allora, ti prego di non chiamarlo più così…».

Lei, forse, non avrebbe mai capito quella loro storia.

Fabiana era una vecchia compagna di banco delle medie, poi le loro strade si erano divise.  Letizia aveva continuato gli studi al liceo di Jesi, poi era partita per l’università a Bologna. Mentre la sua ex compagna era rimasta sempre chiusa in quell’ambiente sterile, e aveva intrapreso quel lavoro di parrucchiera/estetista che la faceva sentire importante. Quello era il suo piccolo regno. Il pettegolezzo e i gossip erano il suo terreno da concimare e le dava la sensazione di conoscere il mondo.

Di Letizia invece, in paese, si erano perse le tracce. Solo dopo il suo ritorno a Serra e dopo che stavamo ristrutturando quella vecchia casa del centro storico si era di nuovo iniziato a (s)parlare di lei - e di me. Mi vedevano lavorare con l’impresa che stava sistemando il vecchio rudere. E intanto, intorno a noi, il paese ricamava curiosità e storie.

     Poi, lentamente si è abituato alla nostra convivenza: al mio diverso colore. Al nostro amore senza condizioni, a Maria, il frutto esotico del nostro amore, alla generosità di Letizia, che aveva abbandonato il suo lavoro e le sue certezze per aiutare chi soffriva. Al suo coraggio per essersi innamorata di un uomo del Mali e alla sua determinazione a voler diventare madre a discapito delle chiacchiere che l’avrebbero perseguitata.

     Il tempo è trascorso e, ora, faccio parte di questa comunità. La gente del paese viene nella MIA bottega, senza badare più al colore della mia pelle. Aggiusto le loro sedie e faccio piccole riparazioni alla loro mobilia. A volte, si fermano da me con una scusa, o magari solo per fare due chiacchiere e sentire le storie della mia Africa lontana. E, magari loro mi raccontano di Ernesto che improvvisamente, una mite mattina di primavera se n’è andato.

E io, come mi aveva promesso, continuo a portare avanti la sua falegnameria.

 

© Franco Duranti - marzo 2016