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    Marco e Valentina si erano persi di vista dopo la maturità. Lui, dopo quello che era capitato, era andato via dalla città. Voleva resettare tutto, come se quella fuga da Jesi avesse avuto il potere di cancellare quello che c’era stato tra loro. Era approdato a Padova per frequentare giurisprudenza, ma se avesse voluto avrebbe potuto iscriversi a Macerata. Lei era rimasta qui, con il suo Arturo e aveva rinunciato alla facoltà di economia che tanto le piaceva.

     Era trascorso poco più di un anno da quando frequentavano il liceo. Avevano avuto una breve storia. Breve ma intensa. Perlomeno per lei era stata molto importante, ma forse anche per lui. Marco però, dopo quello che le era capitato, l’aveva esclusa dalla sua vita. Non che non l’amasse, ma non voleva credere che quel figlio che stava crescendo dentro di lei potesse essere suo. Forse era stato un vigliacco: un maledetto vigliacco a lasciarla così. Ma quel figlio, se mai fosse stato suo, era certo che avrebbe compromesso il suo futuro sul quale riponeva tante aspettative.

     Valentina sapeva che Arturo lo aveva concepito con lui. Di chi altro poteva essere se non suo. Certo, non era stato il primo ragazzo, aveva avuto altre storie, ma in quel periodo aveva avuto rapporti solo con Marco.

     E lui non se l’era sentita di affrontare un passo così importante. E lei non l’aveva obbligato a compierlo. Con coraggio, aveva preferito tenere il bimbo e affrontare la maternità a tutti i costi. Solo sua madre l’aveva aiutata in quella difficile situazione, mentre quella vita lentamente stava prendendo forma dentro di lei. Solo lei era stata in grado di starle vicino.

     Suo padre se n’era andato di casa da quasi due anni e le aveva piantate su due piedi per un’altra donna di cui si era invaghito. Nemmeno immaginava di essere diventato, prima del previsto, nonno di uno splendido marmocchio. E, sua madre e Valentina avevano capito che degli uomini è meglio non fidarsi troppo.

     Adesso anche Valentina stava pagando per l’egoismo di Marco.

     Il vento teso e gelido di fine gennaio si stava insinuando tra la sua barba lunga e scura che si era lasciato crescere. Forse, con quello stile hipster, voleva sembrare un altro: dopotutto gli stava bene, quella folta pelliccia sul viso. Gli conferiva un’aria austera e si era sbarazzato di quel volto slavato che aveva al liceo.

     Intanto il vento tagliente, nonostante la barba, continuava a ferirlo come una lama. Affrettò il passo, cercando di appiattirsi contro i muri dei palazzi. Doveva ancora preparare le sue cose da portare via. Il treno sarebbe partito dopo un paio d’ore e la madre, premurosa come sempre, gli aveva preparato i vestiti e le camicie stirate. E, anche qualcosa da mangiare durante il viaggio.

     Imboccò via Costa Lombarda che scende verso porta Valle evitando di passare per la piazza dove le gelide folate erano più tese. Quei vecchi palazzi lo proteggevano dalle raffiche. Poco dopo imboccò l’arco di Palazzo Santoni e attraversò di corsa piazza Federico II. Era a pochi passi dalla vecchia Pretura e si domandava perché fosse passato proprio di lì.

     Lo sapeva il motivo: in fondo alla via, a due passi dalle ex carceri, ci abitava lei.

     – Ciao, – le dissi. Lei, carica di borse della spesa, stava armeggiando con il passeggino coperto da una carenatura di plastica trasparente. Sotto quella cupola, un po’ appannata dal calore del bimbo, s’intravedevano due occhietti vispi che mi osservavano. Quel marmocchio era imbacuccato come una mummia egizia tra soffici coperte di lana.

     Lei di fronte al portone, tentava di infilare la chiave nella toppa.

     – Che ci fai qui? – Quella domanda mi gelò, ma non sembrava sorpresa di vedermi. Nonostante la barba lunga mi aveva riconosciuto subito.

     – Posso darti una mano?

     – Se vuoi, – disse, – lui deve mangiare, deve prendere il latte. Sta perdendo la pazienza… non è come me. Quando ha fame non fa sconti.

     – Lascia che ti prenda le buste.

     – Grazie. Posso farcela anche da sola… – e aggiunse: – Mia madre ha il turno di notte.

     Lei entrò. Accese la luce delle scale e liberò il passeggino dalla protezione di plastica. Prese Arturo in braccio, sembrava una crisalide. Avvicinò il viso al suo e con tenerezza lo baciò sul nasino arrossato. Salimmo le scale. Abitava al primo piano.

     – Perché sei qui? Non eri a Padova?

     – Parto di nuovo. Tra due ore ho il treno…

     – Farai tardi.

     – Ti assomiglia… – le dissi. Ero impacciato con le borse della spesa. Mi trovavo in una situazione strana: non sapevo che dire.

     – Mettile pure sul tavolo. Grazie!

     Le appoggiai in cucina. Nell’appartamento c’era un dolce tepore e un lieve profumo di prodotti per l’infanzia.

     Valentina si era tolta il giaccone e la cloche rossa calzata fin sopra gli occhi e subito dopo aveva spogliato Arturo, liberandolo dalle coperte e anche dal berretto di lana che lo aveva protetto dal rigore di quel fine gennaio. Lo aveva sistemato a sedere nel seggiolone e lui emetteva gridolini di gioia. Aveva gli stessi lineamenti della madre: lo stesso viso dolce e gli stessi capelli biondi di seta.

     Lei aveva messo a scaldare il latte sul fornello e stava sbriciolando minuziosamente i biscotti Plasmon nel poppatoio. Mi disse di accomodarmi in poltrona.

     La guardavo ammirato. Era sicura nei movimenti e in quello che faceva. Mentre io ero lì come un estraneo e mi stavo domandando dove avesse trovato tutta quella forza per affrontare la maternità da sola. Versò il latte tiepido nel biberon e lo agitò energicamente per far sciogliere i biscotti.

     Il pupo già era in fibrillazione: sgambettava e muoveva le braccine per l’impazienza. Aveva capito che era l’ora della poppata.

     Valentina mi ripeté: – Farai tardi! Come mi esortasse ad andare.

     – Vuoi che vada?

     – Fa’ come credi, io non ti ho mai fermato.

     – Mi stai rimproverando?

     – Sai che non è così. Però se vuoi rimanere... Arturo deve ancora mangiare, poi devo cambiarlo e metterlo a dormire.

     Lei si sedette in poltrona con il bimbo in grembo.  Li contemplavo imbarazzato. Arturo si stava ingozzando con avidità. Aveva solo otto mesi ed era vispo. Mi stavo convincendo che ero ancora innamorato, ma non volevo ammetterlo. Non capivo cosa mi avesse preso. Ero stato un vigliacco.

     Mentre dava il latte al figlio, ogni tanto i suoi occhi si scontravano con i miei. Ci lanciavamo messaggi in codice come se quegli sguardi ci riportassero indietro, ai tempi del liceo.

     Per cercare di stemperare la tensione, allungai la mano sul pacco di biscotti Plasmon che era rimasto sul tavolo.

     – Posso prenderne uno? – dissi.

     – Certo che puoi, ma non credo possano piacerti, – mi rispose – hanno un sapore languido e dolce. I suoi occhi erano penetrati di nuovo nella mia anima. Stavano scavando dentro di me, mentre cercavo di darmi un atteggiamento neutrale e disinvolto.

     – Non ricordo il loro sapore, ma credo di averli mangiati anch’io da piccolo...

     – Se hai fame, questi non te la tolgono. E aggiunse ancora: – Hai fame?

     Arturo in pochi minuti aveva vuotato il biberon. Era soddisfatto e tronfio. Valentina bussava piano sulla sua schiena in attesa del ruttino prima di metterlo a dormire.

     Continuavamo a cercarci con gli occhi e con la mente.

     Finalmente un rumore secco annunciò il rigurgito. Feci un sorriso ironico: quel BLURP! profondo non sembrava provenire da un essere così piccolo.

     – Ti sei lasciato crescere la barba, ti sta bene!

     – Già, mi ripara dal freddo.

     – Solo dal freddo? O anche da me? Comunque sei più attraente di quando te ne sei andato. Eri uno sfigatello al liceo… e io che mi ero innamorata di te.

     – Ho avuto paura. Paura di tutto. Di lui che cresceva dentro il tuo ventre. Non volevo crederci...

     – L’avevo capito, ma io non ti ho chiesto nulla. Ti ho lasciato andare.

     – Chiederti scusa, ora, non servirebbe. Lo so. Ma io ti amo ancora…

     – Sei venuto qui per dirmi questo? Cosa vuoi fare, lavarti la coscienza? Pensi che basti sentirmi dire ti amo?  Tu hai avuto paura d’amare. Lo sai che amare non è solo scopare e poi andarsene. Lo sai vero?

     E prima di sparire in camera con Arturo, aggiunse: – È anche restare e condividere attimi di gioia, di paura, di smarrimento.  

     Mentre continuava a snocciolare quelle parole, sentivo su di me tutto il peso della mia codardia, del mio egoismo. Ma, quello che era più disarmante, era il suo sguardo che continuava a indagare su di me. Mi stava mettendo a nudo.

     Rimase in camera per più di dieci minuti. La sentivo parlare dolcemente, sottovoce con Arturo che non voleva addormentarsi. Forse la mia presenza lo aveva distratto dal sonno.

     Ero rimasto solo, seduto in poltrona, e non sapevo che fare. Il treno per Padova l’avrei comunque perso.

     Allungai di nuovo la mano sul tavolo e presi un altro Plasmon, quel sapore dolciastro mi aveva messo sete. Avevo anche voglia di fumare, ma non lo feci.

     Lei ritornò e vide che stavo masticando: – Ti sono piaciuti, eh?

     – Mi hanno fatto venire sete.

     – Vuoi una birra? Te la prendo.

     – Grazie!

     Andò in cucina, la sentii aprire e chiudere la porta del frigo e tornò con due lattine.

     Si sedette sul divano e me la porse. – Perderai il treno… – mi disse, guardandomi.

     – È già tardi… credo che non farò più in tempo. Vuoi che me ne vada?

     – Vorresti che ti dicessi di restare?

     – So che non me lo chiederesti mai. Però, mi sei mancata.

     – Anche tu “sfigatello”, – mi disse, abbassando lo sguardo sulla lattina.

     Mi chiamò con quel nomignolo come al liceo, poi aggiunse: – Non volevo dirtelo che anche tu mi manchi, ma ormai mi è uscito…

     Mi avvicinai e posai la lattina sul tavolo.   

     Valentina mi stava aspettando. Le presi la mano e gliela baciai piano. Era indecisa, mi accarezzò la barba e poi, per un attimo si fermò. Quasi non mi conoscesse. Anche lei posò la lattina e le nostre bocche, al sapore di birra doppio malto, si avvicinarono.

     La sensazione che provai, accostando le mie labbra alle sue, mi fece uno strano effetto. Ritrovai la sua bocca dopo tanti mesi. Lei inseguiva la mia lingua con movimenti roteanti, come un cucciolo mentre rincorre la palla.  

     Ci ritrovammo di nuovo in sintonia come in passato e lentamente iniziai a spogliarla. Valentina, si lasciò fare e mentre le sollevavo il maglione con il collo alto, lei armeggiava con la cintura dei miei pantaloni.    

     In pochi attimi ci ritrovammo entrambi nudi distesi sul divano.

     Si alzò e andò in camera senza far rumore sculettando: aveva ancora un bel culo, la maternità non l’aveva sformata. Ritornò subito dopo con una morbida coperta di pile giallo per coprirci. I termosifoni accesi non erano abbastanza efficienti. In quei giorni la merla stava palesando tutto il rigore invernale.

     Lei mi eccitava ancora.

     Si abbassò su di me. La sua bocca lo stava cercando e avidamente lo baciò. Solo come lei sapeva fare.

Alzò lo sguardo e ci incontrammo di nuovo. Mi disse: – Hai freddo? – Non risposi: il calore del suo corpo si stava fondendo con il mio. Valentina, senza attendere la risposta, continuò e io mi lasciai trascinare in un vortice di passione.

     Come un vulcano assopito da tanto tempo esplosi e il mondo si rovesciò.  

     – Il treno delle venti e trenta l’hai perso, – disse, – quando partirai?  

     – Forse domani. Vuoi che vada via?

     – Perché continui a domandarmelo? Te l’ho già detto, non posso fermarti. E aggiunse: – Vuoi che ti cucini un piatto di spaghetti? Hai ancora fame?

     – Non ora, magari più tardi. – risposi.

     Il ticchettio delle gocce di pioggia battevano decise sui vetri.

     Rimanemmo accucciati e stretti sotto la calda coperta. Il mio viso appoggiato al suo petto, con la barba le solleticavo il capezzolo ancora turgido. Le sfiorai il pube, era umida e pronta a ricevermi. La penetrai e si abbandonò sotto le mie spinte decise aggrappandosi alla mia schiena. Sentivo le sue unghie affondare sulla mia pelle. Alla fine, un’onda impetuosa ci travolse e ci trovammo arenati come due delfini esausti sulla battigia.

     Trascorsero alcuni attimi di silenzio assoluto. I nostri fiati a poco a poco ritrovarono il loro ritmo regolare e ci scrutammo nella penombra sorpresi e meravigliati.

     In lontananza si sentiva il cielo borbottare. Il temporale lentamente si stava avvicinando e all’improvviso lo schianto di un tuono ci scosse dal torpore. Il fulmine doveva essersi abbattuto molto vicino, forse in piazza del Duomo o sulla torre del Palazzo della Signoria. La luce per alcuni attimi balbettò.  

     Quel tuono aveva svegliato Arturo che cominciò a frignare. Lei si rivestì in tutta fretta e scattò verso la camera per cullarlo; poco dopo il pianto cessò e fu assorbito dalla pioggia che aveva cominciato a scrosciare. Lentamente raccolsi i miei abiti sparsi sul pavimento e andai in bagno. Riuscii a trovarlo subito, ero in quella casa per la prima volta ma, seguendo il mio intuito, aprii la porta giusta.

     Mi guardai allo specchio. Quell’immagine riflessa mi apparteneva: nonostante la folta barba mi riconobbi. Ero io.

     Sulla mensola di vetro erano appoggiati in disordine i prodotti per l’igiene di Arturo. Quel bimbo, di là, che fino a poco prima stava piangendo, era mio figlio: come potevo continuare a ignorarlo. Mi ero nutrito anche dei suoi biscotti… che scemo ero stato!  

     Io avrei dovuto provvedere ai suoi bisogni. Sì, quello era “mio figlio”. Non potevo più fingere.

     Valentina ritornò poco dopo e, chiudendo la porta della camera, disse: – Adesso dorme. Quel tuono non ci voleva. Allora, ti fermi o rimani?        

     – È ancora valida l’offerta degli spaghetti?

     – Certo! Vado in bagno e torno, ho bisogno di rinfrescarmi… E aggiunse: – Tu sei già andato, vero? Ho sentito l’acqua scorrere. E si chiuse la porta alle spalle.

     Aspettai seduto in poltrona, ripresi la lattina e ne feci un altro lungo sorso. Lei impiegò più tempo del previsto, sentivo l’acqua della doccia defluire. Fare l’amore mi aveva messo sete e la scolai d’un fiato. Lo scroscio di poco prima aveva allentato la sua irruenza: una leggera pioggerella, inesorabilmente, scendeva contro la luce dei lampioni. Fissai a lungo lo sguardo sul selciato nero e lucente.

     Immerso nei miei pensieri, Valentina mi raggiunse, aveva i capelli ancora bagnati e raccolti nell’asciugamano. Venne al mio fianco e, stringendola, le appoggiai la mano sulla spalla. Fece un sospiro profondo e con me si soffermò a guardare fuori.

     Il temporale era ormai passato sopra la città e si stava dirigendo verso il mare, lampeggiava in direzione di Senigallia. Rimanemmo in silenzio alcuni secondi, come a cercare le parole. Io non avevo il coraggio di giustificarmi per come l’avevo abbandonata e le parole non sarebbero servite.

     Il giorno dopo di quell’incontro, quasi casuale, la chiamai al telefono e le ribadii che gli spaghetti al tonno che mi aveva cucinato erano stati deliziosi. Forse valeva la pena di fermarsi.

     Dopotutto anche quei biscotti Plasmon di Arturo non erano niente male!

 

© Franco Duranti – maggio 2019