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Era lui. Sì, era proprio papà.

Si era avvicinato al tavolino del bar mentre stavo sorseggiando il mio caffè.

Mi è apparso così. Aveva lo stesso viso sorridente, prima che la malattia lo devastasse. Quell’aria di ottimismo che lo distingueva gli era rimasta. Il suo sorriso emergeva della sua protesi mobile.

«Ciao pa’, come te la passi? È un po' che non ci si vede!»

«Ti trovo bene Flavio! Sei in forma, forse un po’ sovrappeso!». I suoi occhi scuri brillavano ancora e si erano soffermati per un attimo sul mio ventre.

«Siediti, – gli dico – vuoi un caffè?» Lui ne beveva diversi durante la giornata, era solito farlo all’americana, praticamente acqua sporca. Ma a lui piaceva quello.

«Forse non ti ricordi pa’, ma anche tu avevi un po’ di pancia… magari l’ho ereditata da te!»

La mia risposta lo aveva fatto sorridere. Credo sia stato felice di vedermi. Non era invecchiato, aveva ancora tutti i capelli neri. Come quando ci ha lasciato, mentre i miei erano diventati grigi e me lo fa notare: «Vada per il caffè lungo, tazza piena…» e aggiunge: «Ti stai imbiancando in fretta caro mio, vedo che anche tu ti stai avvicinando alla vecchiaia!»

«Dai papà…! Non mi sento vecchio, tengo allenata la mente e anche il cervello. Lo sai che scrivo, vero?»

Nel frattempo ordino al barista un altro caffè lungo. Mi guarda e mi fa: «Scrivi? Ma come scrivi! Quando andavi a scuola mi facevi dannare e adesso scrivi... sei proprio imprevedibile, come allora...» e continua: «dovresti allenare di più il corpo, figlio mio! Magari un po’ di movimento ti farebbe bene. Poi, lascia che te lo dica: meno grassi e carboidrati e… meno vino!».

Era appena comparso e già era entrato nel suo ruolo. Mi considerava ancora un figlio difficile. Come in realtà ero sempre stato.

«Ok, ok, hai ragione pa’. Ma adesso parliamo un po’ di te…» e aggiungo: «come te la passi lassù e come trascorri il tempo? Giochi ancora a carte, fai i cruciverba come quando eri a casa?»

Negli ultimi anni, me lo ricordavo così.

«Devo essere sincero con te…» mi dice, «il primo periodo è stato duro poi, ho ritrovato tutti gli amici e abbiamo ricominciato a fare ciò che facevamo quaggiù…».

Aveva voglia di parlare, pover’uomo: «Lentamente ti ci abitui con la morte, è un po’ come quando ero a casa, mi ero abituato alla malattia di tua madre e alla situazione in famiglia. Ero vivo, ma non avevo più il suo affetto. Lo so che tu e tua sorella mi stavate vicini… ma vi siete mai chiesti come stavo in realtà? Io ero già morto dentro».  

Continuava a farmi pena!

Mi sono chiesto tante volte come avesse potuto vivere senza una donna. Avrei voluto domandarglielo allora, magari con discrezione, ma non ne ho mai avuto il coraggio.

Ricordo quella volta, si era sentito a disagio con me a causa di mia zia, la sorella di mia madre. Io avevo poco più di vent’anni e lei gli aveva fatto una scenata in mia presenza. Praticamente lo aveva sputtanato, accusandolo di averci provato. E, anche se l’avesse fatto? Non c’era bisogno di sbandierarlo.

Che stronza era stata mia zia!

«Papà posso chiederti una cosa? Puoi anche non rispondere,» mi decido. Prendo coraggio e glielo domando: «quella volta che la zia ti ha accusato di averla molestata…» Lui mi guarda e fa una smorfia. Gli si inumidiscono gli occhi e forse non dovevo ricordarglielo.

«Tu non immagini cosa vuol dire essere solo… credevo che avesse capito, dopotutto anche lei era sola. Invece mi ha svergognato di fronte a te, mi dispiace.»

«Avevo capito papà, sapevo che ti pesava la mancanza di mamma. Come avrei potuto giudicarti?»

Nel frattempo il barista aveva appoggiato il suo caffè lungo sopra il bancone. Mi alzo e lo porto al tavolo: papà si stava asciugando gli occhi con il dorso della mano. La solitudine di quegli anni gli aveva obnubilato la mente. Non aveva capito, allora, che mia zia era una stronza: una zitella acida ed era meglio starle alla larga. Ma non c’era arrivato.

Estrae il fazzoletto. Si soffia il naso, si ricompone e cambia argomento.

«Come sta Donatella? La vedo quando viene al cimitero a portarmi i fiori. Tu non vieni mai… so che hai da fare.»

«Sta bene, ora ha più tempo per lei e per la casa, è in pensione…»

«Andate sempre d’accordo? È tutto a posto tra voi?»

«Sì pa’, c’è stata una breve crisi, ma adesso è ok.»

Afferra il bastone, appoggiato sulla sedia e lo batte ripetutamente sul pavimento, come volesse intimidirmi.

«Scommetto che è colpa tua! Non sei cambiato.»

«Sì pa’, è colpa mia, ma non battere, ci guardano!» Lui continuava a dare in escandescenze, ma nessuno ci notava. Continuo a spiegarmi: «Mi sono fatto irretire da una donna: diceva che ero diverso dagli altri e così le ho permesso di avvicinarsi troppo al mio cuore. Poi, lo sai pa’, a me piacciono le lusinghe e gli apprezzamenti… e lei ci aveva saputo fare.»

«Sapevo che era colpa tua, sei sempre il solito! Un impulsivo, un irrazionale. Non sai controllarti, come da giovane, cambiavi le tue “amicizie femminili” con troppa disinvoltura. Pensavo ti fossi fermato con la maturità, invece… vedo che ancora corri dietro a loro.»

«Dai papà, non ricominciare. Ho quasi la tua età e mi tratti ancora come un dissennato. Poi le cose si sono aggiustate.»

Non riuscivo più a fermarlo. Quella notizia lo aveva destabilizzato.

«Ero così contento di parlare con te e d’un tratto, mi fai sentire una merda. Dopotutto stiamo ancora insieme».

Aspettavo che si calmasse: volevo sapere qualcosa di più della sua vita passata e non volevo parlare della mia.

Sapevo che aveva avuto un debole per Erminia, un’amica di famiglia che frequentava la nostra casa. L’avevo scoperto subito dopo l’invalidità di mia mia madre ed ero quasi sicuro che s’incontrassero di nascosto. Eravamo ormai in sintonia e in vena di confessioni e glielo chiedo senza girarci troppo intorno:

«Con Erminia come è andata?» Lui mi guarda, aggrotta le sopracciglia, si blocca consapevole di essere stato smascherato.

«Come fai a saperlo? Sì certo, era una gran signora e non ti nascondo che mi piaceva. Ma posso assicurarti che non c’è stato nulla. Niente di più di un bacio: non se la sentiva con i due figli da crescere e con tua madre inferma».

Parlava e mi faceva tenerezza, pover’uomo!

Gli occhi liquidi avevano perso lucentezza. Lo vedevo mesto, provato dalla vita.

La conversazione ci aveva messo a nudo.

Il mio pensiero lentamente era scivolato sulla morte. Chissà? Forse, tra un po’ lo avrei raggiunto…

Mi alzo per pagare i due caffè. Il barista continuava a guardarmi perplesso, non aveva capito con chi stessi parlando.

Ritorno al tavolo, papà era sparito. Il suo bastone era ancora appoggiato sulla sedia.

 

© Franco Duranti - 2020