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Erano quasi le nove e trenta di sera, e lui doveva ancora mangiare qualcosa; anche il caldo opprimente di quella giornata di fine luglio lo aveva provato. Quel sabato, nel raggio di ottanta chilometri, aveva consegnato centoventinove pacchi. Ne mancava solo uno, poi per Fabrizio sarebbe stato il record di consegne. Era sfinito, sarebbe andato a casa e finalmente si sarebbe fiondato sotto la doccia.

      Anche se Amazon spremeva i suoi corrieri come limoni, era soddisfatto del suo lavoro. A ventotto anni i ritmi incalzanti riusciva a reggerli bene. Gli mancava solo un po’ di tempo libero e le partite a calcetto con gli amici: quelle sì che gli mancavano! E proprio quella sera aspettava con ansia la fine del turno di consegne per una partita con gli amici, alle dieci e trenta al campetto.

     La sua ragazza lo aveva lasciato da due mesi, cioè da quando lui era stato assunto. Flavia gli rimproverava di pensare solo al lavoro e diceva che lei contava meno di quei merdosi pacchi Prime color avana.

     Sullo smartphone controllò Google Maps. L’ultimo recapito della giornata era alla periferia nord, ai limiti del centro abitato. Le prime luci della città cominciavano a palpitare sulla notte incombente. Da lì, intorno, era già campagna. Era la prima volta che consegnava in quel posto.

     Imboccò la stradina che conduceva a quella casa isolata. L’edificio era una piccola villa monofamiliare in pietra e legno, con ampio giardino recintato. Sembrava una baita di montagna con il tetto spiovente, ma era a due passi dal centro.      

     Appena il furgone si avvicinò, un grosso Labrador dal pelo fulvo cominciò ad abbaiare. Il fatto lo mise in allerta: non era un amante degli animali e, a volte, quando qualcuno di questi dava segni di insofferenza, lasciava il pacco per terra senza avvicinarsi troppo.

     Mentre pensava queste cose, fortunatamente, una figura femminile si stava approssimando dall’angolo della casa.

     «Una consegna per la signora Adalgisa Tribelli», gridò lui, per farsi sentire mentre il cane continuava ad abbaiare infuriato.

     Adalgisa si avvicinò all’animale e lo rabbonì con un paio di carezze sulla grossa testa.

     «Non abbia paura! È buono, solo quando non conosce la gente fa così…» e aggiunse: «non ci speravo più nella consegna, ormai sono quasi le dieci. Avevo perso le speranze!»

     «Lei è l’ultima della giornata. La sua era prevista entro le ventidue e infatti sono riuscito ad arrivare in tempo utile. Noi dobbiamo garantire le consegne altrimenti sono dolori…»

     «Grazie, le posso offrire qualcosa? Devo firmare la ricevuta?» gli disse prendendo il pacco e allungando la mano verso la sua.

     Le due mani casualmente si sfiorarono, o forse no, e i loro occhi s’incontrarono. La mano di Adalgisa si soffermò su quella di Fabrizio e lui percepì un tremito e balbettò:

     «Non serve… e non vedo l’ora di terminare il turno. Sono dodici ore che faccio consegne e questa è la numero centotrenta della giornata»

     Lei però continuava a insistere, provava una certa compassione per quel giovane con i capelli ricci e bagnati, forse dal caldo oppure dal gel. E poi, quegli occhi scuri che si erano soffermati sui suoi volevano pur dire qualcosa…

     «Le offro un tè freddo o un caffè, o quello che vuole. Insomma non si faccia pregare, è stanco, si rinfresca, poi conclude il turno… come ha detto di chiamarsi?»

     «Non l’ho detto, comunque mi chiamo Fabrizio. Vabbè accetto un tè freddo, però io, non vorrei sembrarle ridicolo ma ho un po’ paura dei cani. Se lei lo potesse allontanare sarei più tranquillo».

     Quella donna di circa cinquant’anni e di bell’aspetto, aveva una lucida pelle liscia e abbronzata, anche se, ai lati degli occhi qualche zampa di gallina testimoniava i segni del tempo. I suoi capelli biondi e morbidi fluttuavano a ogni leggera movenza. E tutto ciò gli procurava un certo turbamento.  

     Adalgisa afferrò il Labrador per il collare e lo condusse vicino alla cuccia, nel suo recinto.

     «Venga, si accomodi» gli disse.

     Gli fece strada e lo invitò a sedersi in salotto dove un divano ad angolo era posizionato davanti ad un grande televisore a led da cinquanta pollici. Era acceso e stava trasmettendo il programma di Maria De Filippi, lei pigiò il tasto del telecomando e lo spense.

     Era impacciato anche se, ormai era al sicuro dal cane.

     Si accomodò in poltrona, mentre lei andò in cucina. La sentiva armeggiare con i bicchieri che tintinnavano e la porta del frigo che sbatteva. Dopo un attimo era di nuovo lì, di fronte a lui.

     Alla luce della stanza aveva notato che era ancora più bella e i segni della maturità che aveva visto poco prima, in giardino, erano svaniti: la luce diffusa li aveva cancellati.

     Reggeva un vassoio con due alti bicchieri e una caraffa di tè con dentro alcune foglie di menta che galleggiavano. Lo appoggiò sul tavolo: per lo sbalzo termico la caraffa si era appannata, come i pensieri di Fabrizio...

     Lui sentiva tutta la tensione e la stanchezza accumulata da quella pesante giornata. Forse aveva sbagliato ad accettare l’invito, ma un bicchiere di tè fresco, di sicuro, lo avrebbe tonificato e poi, – pensò – in fondo, non c’era nulla di male ad accettare le sue premure.

     Adalgisa si sedette al suo fianco, gli riempì il bicchiere e glielo porse:

     «Tieni, vuoi pure un sandwich, qualcosa da mettere sotto i denti?» glielo chiese senza giri di parole.

     Ed era passata dal lei al “tu”.  Come faceva con i suoi studenti con i quali aveva un rapporto diretto e cordiale.

     «Posso chiamarti Fabrizio, ti spiace?» e, come per giustificarsi aggiunse: «potresti quasi essere mio figlio…»

     Mentre gli porgeva il bicchiere, la sua mano si soffermò di nuovo sulla sua. Come era avvenuto poco prima, quando gli aveva consegnato il plico. Aveva avvertito ancora il suo calore, ma adesso aveva percepito anche il suo disagio.

     Fabrizio non la scostò. La tensione era nell’aria.

     Lasciò che quel contatto si prolungasse, aveva intuito che oltre alla premura di Adalgisa, in lei c’era anche qualcosa di inespresso.

     «Grazie, va bene così…» rispose impacciato. Accostò il bicchiere alle labbra tumide e fece una lunga sorsata fino a vuotarlo  

     Lei continuava a scrutarlo: gli occhi dentro ai suoi. Cercava di leggere il groviglio di pensieri che si affollava nella sua giovane testa.

     «Ne vuoi ancora?» gli chiese, porgendogli di nuovo la caraffa.

     «No, grazie. Va bene così. Ora devo andare…»

     Adalgisa continuava ad insistere. In Fabrizio aveva rivisto uno dei suoi allievi. Uno studente del quinto liceo di cui si era innamorata. Fu a causa di quella storia, che il suo matrimonio finì a rotoli. Erano trascorsi ormai cinque anni e dopo la separazione non aveva avuto più nessun’altra storia.

     Si era immersa di nuovo nel suo lavoro di insegnante di lettere. E ora, che la scuola era finita ed era in vacanza, le mancavano i suoi ragazzi. Le riunioni, i collegi e i progetti culturali che il preside proponeva.

     E in quel Fabrizio, capitato lì per caso per consegnarle un pacco, aveva rivisto lo stesso suo ex amante.

     Lo stesso fisico atletico. Alto quasi un metro e novanta, spalle larghe da atleta e una folta chioma nera e riccia. Poi, quegli occhi scuri vispi e guizzanti da scoiattolo – ancora una volta – le stavano facendo perdere la testa.

     «Forse è meglio che te ne vai. Capisco… il tuo lavoro è terminato, magari ci vediamo alla prossima consegna.»

     Magari un’altra volta non sarebbe capitato, – pensò lui – a malincuore si alzò e la salutò ringraziandola per la gentilezza.

     Erano quasi le dieci e forse era ancora in tempo per la partita di calcetto in notturna. Oltretutto il borsone con le scarpette e la divisa le aveva con sé nel furgone.

 

© Franco Duranti – dicembre 2022