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Ormai mi sono abituato a quella bottega di barbiere e non ho il coraggio di abbandonarla.

Sono più di quarant’anni che vado sempre in quel piccolo salone,

di via Garibaldi: credo faccia parte della mia esistenza,

se l’abbandonassi ora, sarebbe come tradire me stesso.

La prima volta che ci misi piede ero giovane e

il titolare era un uomo di mezza età, credo che avesse superato

da poco la soglia degli ”anta”

Ulderico, questo era il suo nome, era un barbiere di vecchio stampo ma ci sapeva fare

Usava il rasoio come una piuma: scivolava via sulla pelle

con la leggerezza di un alito di vento; le forbici sulla la tua testa

risuonavano veloci e sicure. Il loro ticchettio come uno strumento musicale,

sempre accordato. Mai un colpo fuori posto.

Il maestro proveniva dalla vecchia scuola dei barbieri di Jesi dove istruiva

i giovani apprendisti. Non si limitava ad insegnare la tecnica del taglio, ma anche

ad avere un rapporto cordiale con il cliente.

Si entrava nella sua bottega e l’aria che si respirava, diventava di colpo accogliente.

Tutto era gioioso, allegro e scanzonato; mentre si era in attesa

del proprio turno il tempo volava, tra risate e sfottò,

tra battute sulle squadre di calcio e amori impossibili, senza mai cadere nel volgare.

Era piacevole quell’attesa.

Il vecchio barbiere, prima di andare in pensione,

lasciò la sua bottega a Stefano, un giovane jesino che da lui aveva appreso tutto il mestiere.

Ma presto si stancò, preferendo gli orari sicuri e regolari della fabbrica.

La bottega di Ulderico finì, a sua volta, nelle mani di Tommy, un altro giovane apprendista

di origini campane che, al ritorno dalla leva militare rilevò il salone.

Anche per il giovane Tommaso, gli orari non coincidevano

con le esigenze delle discoteche e dei fine settimana da sballo.

Ma io, fedele, ero sempre lì..

Si susseguivano gestori e proprietari, ed io, sempre presente, non cambiavo mai.

Al suo interno, mutava anche il linguaggio. Il dialetto jesino, a me caro,

soppiantato e imbarbarito da quello campano.

Nonostante ciò mi sentivo comunque a mio agio. Il clima era sempre quello, scanzonato e

festaiolo mentre il cliente jesino a poco, a poco scompariva, migrava;

soppiantato da meridionali, da qualche extracomunitario e da alcuni albanesi

con poca voglia di lavorare, approdati in Italia nei primi anni novanta.

Adesso, chi provvede alla mia chioma è un indiano, e il clima è mutato radicalmente.

Imbattersi in un indigeno è cosa rara: io mi considero una mosca bianca.

Comunicare è difficile anche se Ram, devo ammettere,

si fa in quattro per farsi comprendere: la sua bottega, anzi la “mia” -

perché a questo punto la considero un po’ anche mia -, è piena di indiani

e quando parlano tra loro io mi sento un estraneo.

Un estraneo nel mio quartiere.

In attesa del mio turno, al mio fianco siede un nigeriano, nero come la notte.

Lo chiamano “Gorillo”, perché un po’ gli assomiglia: espone

la sua mercanzia sul pavimento e sul divanetto. Lui, è un’eredità di Tommy,

era presente anche allora… è diventato come un lascito. Per solidarietà, qualcosa

gli acquisto: magari un accendino o una torcia tascabile.

Mentre sono lì che aspetto per il taglio di capelli e la rifinitura della barba,

la televisione, sintonizzata sui canali indiani, trasmette vecchi film stile “Bollywood”

o videoclip surrogati di quelli occidentali,

con una musica, lamentosa e ripetitiva, di sitar, ghatam e tampura.

E allora, mi domando: - È il caso di cambiare bottega?

Non ho il coraggio. Quella vecchia barbieria, ormai, fa parte di me...

 

© Franco Duranti - dicembre 2016