Le nostre vite si erano separate nei primi anni settanta. Quando eravamo poco più che ventenni e avevamo tutta la vita davanti. Ci aveva diviso le complessità dell’esistere: prima il servizio militare, poi il lavoro e infine le nostre vite coniugali.

     Ci eravamo sposati tutti presto. Lui aveva lasciato la città e gli amici. Si era trasferito per lavoro a Pavia e lassù al nord erano nate le sue figlie.

     In quegli anni la voglia di essere liberi era tanta. Ma poi liberi da chi, da che cosa. Forse dal tetto dove eravamo nati? Non vedevamo l’ora di andarcene via e costruire la nostra indipendenza. Avevamo voglia di mordere la vita prendendola per la gola.

     Forse Sergio avrebbe preferito rimanere qui nella sua città, con tutti noi. Ma non poteva rinunciare a quel posto sicuro all’agenzia delle Entrate.

      In quegli anni contestavamo tutto e tutti: era di moda. A volte capitava di farsi del male: magari imboccando strade sbagliate, come era successo a Leonardo, un nostro comune amico. Per lui la voglia di libertà si era infranta in una cella di prigione della capitale con la cinghia dei pantaloni al collo. Era andato a studiare a Roma e per pagarsi le spese universitarie aveva cominciato a spacciare. Non ce l’aveva fatta a sopportare l’isolamento. Diceva di essere innocente, ma lo avevano beccato a vendere droga davanti alle scuole medie.

     Noi invece andavamo a scuola e contestavamo: i professori e il loro metodo d’insegnamento, la società e la classe politica, la guerra in Vietnam e il presidente Nixon, la chiesa e i preti. Insomma tutto.

     Che scemi eravamo! Irradiati dal tepore delle nostre sicure certezze difendevamo la pace, a parole. Solo a parole. Mentre il nostro culo era al riparo, al caldo delle nostre famiglie.

     Avevamo messo in discussione anche il rapporto con i genitori. Per noi, loro erano i matusa. Loro che ci avevano dato la vita e si erano sacrificati per noi. A ripensarci ora, mi viene da sorridere. Eravamo proprio scemi.

     Il lavoro non mancava, era facile trovare un’occupazione: bastava solo averne voglia e uno straccio di lavoro o un modesto impiego lo trovavi sempre. La crisi, quella sarebbe arrivata qualche anno dopo. Altri tempi!  

     Con Sergio, ci eravamo incontrati per caso mentre ero in giro in città per acquisti. Erano passati quasi cinquant’anni e, guardandoci negli occhi dopo tanto tempo, la sintonia che avevamo si era rimessa in moto. Lui era in compagnia della moglie Valentina: la stessa ragazza di allora, un po’ invecchiata come tutti noi.  Qualche ruga, le borse agli occhi e la pelle secca.

     Il tempo, nonostante tutto, aveva avuto pietà di noi. Non si era accanito: a parte qualche capello bianco, qualche fastidio alla schiena, alla prostata, o qualche cellula impazzita… era stato clemente.  Dopotutto, ripensando alla fine di Leonardo, non ci potevamo lamentare per come eravamo riusciti a venirne fuori.

     Quel giovedì mattina avevamo deciso di partire presto per andare a funghi. Il nostro incontro dopo tutti quegli anni, ci aveva fatto scoprire che, oltre alla musica e alle ragazze che in quegli anni ci accomunava ora, avevamo un’altra passione in comune. E questo ci aveva rimesso in corsa come ai vecchi tempi.  

     Già pregustavo di rivivere con lui i momenti condivisi quasi cinquant’anni prima. Le nostre avventure sentimentali di cui ci pavoneggiavamo: i balli lenti nei locali del centro storico con un vecchio giradischi, le nostre conquiste e l’amore libero con le ragazze che ci scambiavamo. Quelle che ci stavano ruotavano a turno tra di noi, poi confrontavamo le loro prestazioni amatorie.

     Alle cinque e trenta passò a prendermi. Avevo già preparato le mie cose: il k-way, il logoro cesto di vimini, il vecchio bastone di orniello, gli scarponi e gli stivali di gomma. Ero sceso di sotto in giardino per anticipare la partenza appena sarebbe arrivato: ma lui era già lì e mi stava aspettando con il motore acceso del suo fuoristrada.

     Come al solito, nonostante fosse trascorso tanto tempo, Sergio era sempre stato preciso e puntuale; anch’io credo di esserlo, ma la sua efficienza era sempre stata superiore alla mia. Sulla puntualità, mi aveva sempre battuto.

     Un saluto rapido, e in fretta caricai le mie cose.

     “Ciao Vecchio! Sei pronto per la grande avventura?” Mi guardò con i suoi occhi azzurri, mentre sorridendo le solite fossette gli segnavano gli angoli del viso.

     Rispose: “Certo, faremo una strage! Come ai bei tempi, con i cuori delle pulzelle…” Le sue pupille radiose, avevano lo stesso colore: lo sguardo era ancora vivace e rassicurante. Aveva la capacità farti sentire al sicuro. Solo i capelli neri avevano perso completamente il colore, adesso la sua testa era bianca, candida come la neve.

     “Allora andiamo! Tremate porcini!

     Ingranò la marcia e partimmo.      

     L’aria del primo mattino era piacevolmente fresca. La pioggia del giorno precedente aveva abbassato la temperatura e, se fosse scesa troppo in fretta, potevamo dire addio ai porcini.         

     La città era ancora immersa nel sonno: il camion della spazzatura ronzava mentre vuotava i cassonetti con un rumore secco, il metronotte stava terminando il suo giro notturno.

     Jesi a quell’ora era bellissima. Transitammo per via Setificio, eravamo solo noi a percorrerla, durante il giorno, invece, pullulava di varie etnie. Il Montirozzo, con la sua torre imponente ci sfilava sulla destra, simile ad un turgido turrino - Psalliota arvensis -, sembrava volesse augurarci una buona raccolta.

    

     In auto, di tanto in tanto, ci guardavamo compiaciuti per l’emozione di esserci ritrovati e, ad ogni ricordo che riaffiorava, sghignazzavamo: eravamo di nuovo complici delle vicende del nostro passato. Sembrava fosse trascorso un secolo, in realtà, senza accorgerci, ne era sfuggito metà.

     Quel breve viaggio ebbe la forza di cementare di nuovo la nostra amicizia. E lentamente, ritrovammo l’empatia che ci aveva accompagnato in quegli anni e le nostre vite ripresero a girare. Come un vecchio vinile inceppato sul piatto del giradischi.

     E, come d’incanto ci trovammo sulla stessa lunghezza d’onda.

     Ci accorgevamo che il disco della nostra vita suonava ancora. Perché Sergio, come una volta, aveva molta cura per i suoi vinili, li sapeva custodire senza mai graffiarli.

     Con Sergio era diverso dagli altri amici. Ogni argomento che trattavamo, sia si parlasse d’amori impossibili che di gusti musicali, tutto aveva, sempre, quell’aria di leggerezza e di morbidezza. La sua, non era superficialità, era semplice fatalità. Secondo lui, la vita andava vissuta, accarezzata e lisciata per il verso del pelo. Mentre con gli altri tutto ciò non accadeva. Con loro ogni discussione inevitabilmente finiva a cazzate.

     Arrivammo a destinazione, impiegando quarantacinque minuti: a quell’ora le strade erano quasi deserte e Sergio spingeva sull’acceleratore senza rischiare troppo. Decidemmo di percorrere quelle che tagliano le colline e transitammo per Cupramontana, Apiro, Frontale fino a Pian dell’Elmo un, percorso con curve e saliscendi che avrebbe colmato il piacere del breve viaggio.

     Giunti a Pian dell’Elmo iniziammo l’ultimo tratto aggredendo il monte San Vicino. Le mucche, allo stato brado, ruminavano stancamente nei pascoli ancora rigogliosi.

     Ai nostri occhi, si presentò uno spettacolo unico che ci fece sprofondare nella meraviglia della natura. Sopra di noi il cielo era limpido e trasparente, di un azzurro cobalto con sfumature arancio e rosa verso il mare; il monte Cònero poggiava la sua schiena piegata sopra l’Adriatico. Sotto di noi una distesa di nuvole bianchissime nascondeva l’alta Vallesina con Cerreto d’Esi e Matelica.

     Stavamo galleggiando con il fuoristrada in un mare di ovatta, come in un sogno. Una visione difficile da sostenere. Commentavamo che comunque fosse andata, saremmo stati soddisfatti: quello spettacolo ci ripagava per le ore rubate al sonno.

     “Che fine ha fatto Lorella, l’hai più rivista?” mi chiese Sergio mentre continuavamo a galleggiare tra le nubi. “È morta alcuni anni fa. Era insegnate, maestra d’asilo” Risposi sintetico: “…la morte è sempre una brutta cosa”.

     “Cosa avrà insegnato a quei bambini? Dopo tutti i lavoretti che ti faceva?”

     “Ho saputo che non era male come maestra. Un po’ matta, quello sì! Era rimasta tale anche dopo. Vestiva come una stramba, fuori dal tempo. Portava ancora gonne lunghe fino ai piedi e casacche larghe Era rimasta al periodo dei figli dei fiori.”

     “Si faceva ancora le canne?”

     “Sì, la direttrice l’aveva anche ripresa. Ma non è morta per quelle… un ictus!”

     Sergio si voltò verso di me e disse: “Io con lei non ci sono mai stato, lo sai vero? Ve l’avevate passata tutti, escluso me!”

     “Eri troppo innamorato di Valentina. Tu eri di gusti raffinati, mentre io volevo solo divertirmi. E lei si divertiva e io la lasciavo fare… sono d’accordo Sergio, non era bella. Un po’ bassa e troppo in carne ma sapeva baloccarsi con il mio gingillo.” Lui scoppiò in una fragorosa risata.

     Sulla curva a gomito prendemmo la deviazione a sinistra, che conduce a Canfaito - direzione Elcito, se avessimo proseguito per la strada asfaltata saremmo scesi poi a Matelica.

     Imboccammo la maestosa galleria di faggi secolari; ci sovrastavano oscurando la luce del giorno. Sembrava di essere nel bosco incantato delle fiabe.

     Eravamo entrambi carichi come due molle: pieni di speranza come giovani adolescenti di sessant’anni. I discorsi di poco prima ci avevano fatto quasi dimenticare il motivo della nostra escursione, ma ero certo che qualche porcino sarebbe finito nei nostri canestri.

     L’inverno era stato nevoso e l’estate molto calda. Il mese di giugno era stato afoso e l’ultima settimana, in quella zona, si era abbattuto un grosso temporale. Il clima era ideale. Quel posto lo conoscevo come le mie tasche: so dove affiorano prima gli Edulis e dove si nascondono gli Aereus. E, dove i Cantarellus Cibarius timidamente si affacciano tra il muschio.

     Ero ben predisposto verso il mio vecchio amico. Con lui, non ero geloso dei miei posti segreti. Come non lo ero allora, quando ci scambiavamo le ragazze. Sergio non aveva mai approfittato di quell’alternanza con Lorella; nonostante fosse stata meno bella di sua moglie, oggi forse, non avrebbe disdegnato i favori che lei ci dispensava.

     Altre auto, oltre alla nostra, erano già parcheggiate nella radura. Lui, con passo deciso, si diresse subito sul prato, in basso sulla destra. Lo tenevo d’occhio per non perderlo di vista e mi diressi con calma verso la mia meta. Mentre procedevamo, sull’erba guazzata dall’umidità della notte, il primo a fare bottino fu lui. Due splendidi turrini turgidi e bianchi erano seminascosti tra le foglie spinose dei cardi.

     Mi avvicinai, era intento a ripulirli da residui di terra e mi complimentai dandogli una pacca sulla spalla: “Ti piace vincere facile, eh? Chiunque li avrebbe visti sul verde del prato... anche un cieco.” Li presi dal suo cesto e li annusai, un delicato odore di anice appagò il mio olfatto.

     Più avanti, nella stessa direzione dove lui li aveva trovati, anch’io iniziai a perlustrare, e fu un’agevole raccolta. Però, sono un cercatore di bosco, non amo il prato e glielo ricordai:

     “Tu divertiti, io entro nella macchia ma non ti allontanare!” Sergio mi fece un cenno di assenso e riprese a camminare.

     L’altimetro indicava quota 1180 metri. Quella era l’altitudine ideale dove di solito nascevano i miei porcini e mi addentrai nella mia boscaglia personale che ormai riconoscevo anche bendato. La prima volta che la scoprii, contrassegnai il punto preciso con una bottiglia di birra vuota lasciata in terra da qualche gitante cafone. Erano trascorsi più di vent’anni da quel giorno e a fine giugno quella piccola macchia di faggi e noccioli mi aveva sempre riservato grandi soddisfazioni.

     Mi inoltrai facendomi largo tra le foglie umide con il mio vecchio bastone che, con il trascorrere del tempo, era diventato duro come l’acciaio. La bottiglia di birra verde era ancora lì, in terra. Cominciai a rovistare, facendo attenzione a dove mettere i piedi per non compromettere la raccolta.

     - Ecco, ci siamo!  Pensai.

     La punta del mio bastone percepì qualcosa di sodo, non era un sasso, e mi abbassai tastando il terreno. Era lui. Il cuore prese a battermi forte, come la prima volta. Avrei voluto fischiare per richiamare l’attenzione, ma non osai farlo. Poco prima, nei pressi della radura, avevamo incontrato altri due cercatori. Il mio richiamo, di sicuro, li avrebbe allertati. Ricoprii il porcino con alcune foglie ed uscii dalla macchia. Sergio era ancora lì sul prato: chino e stava raccogliendo qualcosa. Un mio breve fischio flautato, giusto per attirare la sua attenzione, lo raggiunse. Con il braccio gli feci cenno di seguirmi.

     L’ignoto stava per essere svelato. 

     Ancora una volta, ero pronto a condividere con lui qualcosa di me.

     Quanti segreti allora ci univa, quante storie in comune. E la mia mente ritornò ancora una volta al nostro passato. Gli ricordai di quell’altra ragazza: si chiamava Annina. Lei veniva ad assistere alle nostre esibizioni nel locale dove suonavamo, era una nostra fan. Sergio non era musicista, ma faceva parte della nostra band: era il nostro fonico e all’occorrenza ci aiutava nel trasporto degli strumenti.

     Ero riuscito a convincerlo come un ruffiano. Lui era refrattario, non voleva tradire Valentina. Ma sapevo che in fondo Annina gli piaceva e anche lei era innamorata di lui. Era bionda, con una cascata di capelli lisci fino alle spalle: assomigliava un po’ a Sylvie Vartan.

     Finirono a letto all’insaputa della sua futura moglie.         

     Ne parlammo poco prima di arrivare a Pian dell’Elmo: mi ringraziò, ma a denti stretti per quello che era successo. Forse Sergio non avrebbe mai preso l’iniziativa. Fondamentalmente amava troppo la sua Valentina e senza la mia spinta non l’avrebbe mai tradita.

     Gli piaceva fare lo sbruffone, lo faceva solo per attirare l’attenzione su di sé. Era consapevole del suo fascino, ma in fondo era integerrimo. Si era rivestito di una specie di copertura che lo proteggeva dalle avances delle ammiratrici e sono certo che dopo quella volta non abbia più amato nessun’altra donna, a parte sua moglie.

     E, continuavamo a ricordare le nostre storie e i vecchi tempi velati da una punta di nostalgia, già quei tempi che non sarebbero più tornati. Come detriti depositati dalla piena di un fiume, continuavano ad ammassarsi dentro di noi accadimenti ed esperienze personali di cui, forse, non avremmo mai più parlato.

     Entrammo nella mia macchia. Ci facemmo largo tra i rovi e gli svelai il ritrovamento: un porcino immacolato con il cappello ancora chiuso e tosto grande come un pugno. Era stupendo! Cercammo con più attenzione e battemmo tutta la zona. E molti altri finirono nei nostri cesti. Precisamente diciassette splendidi esemplari di Boletus Edulis.

     Dodici finirono nel suo e cinque altrettanto belli nel mio. Forse avrei fatto un bottino migliore se fossi stato solo. Ma ero soddisfatto di come era andata.

     Dopotutto, con i veri amici si divide tutto: donne, gioie, dolori e… porcini.

 

© Franco Durantiottobre 2018