Quella di San Settimio è una delle fiere più antiche e importanti della Marche. Forse solo quella di Sant’Agostino di Senigallia, raccoglie più gente dal circondario. Ma Jesi, come ogni anno, era già in fermento.
Anche quell’anno, alle sei e trenta del 23 settembre, Costante e Mariola erano già sul posto. Erano giunti da Appignano e da poco, avevano iniziato ad allestire il loro banco di articoli per la casa. Tra il rumore di pentole, di cocci e stoviglie stavano svegliando gli abitanti di Piazza Padella. Tutti  erano affacciati alle finestre.

I bancarellai, come sempre, erano pieni di speranze e le condizioni favorevoli del tempo promettevano buoni affari
Il colonnello Bernacca aveva previsto, infatti, tre giornate di tempo favorevole e la sveglia, che di buon’ora li aveva scaraventati giù dal letto per raggiungere il capoluogo della Vallesina, era un ricordo ormai sbiadito.
Quel giorno, e i due seguenti, sarebbero stati loro i protagonisti della città. I bancarellai. Avrebbero dato la sveglia alla città con le loro voci e con i mille rumori. Il Corso, Via XV settembre, Piazza della Repubblica e tutto il centro storico avrebbero vissuto in un allegro trambusto.
I quattro bar che si affacciavano sulla piazza erano già in piena efficienza. Il bar Centrale di Oliviero, il Caffè di Fracassi, il bar Imperiale e il Caffè del Teatro stavano preparando colazioni e cappuccini. l profumo di paste e brioches appena sfornate  addolciva l’aria di fine estate. Un’estate che a fatica stava cedendo il posto ad un autunno che avrebbe portato con sé vecchi profumi di mosto e di vino.   
In quei tre magici giorni, però, gli odori e i profumi erano altri.
Lungo il Corso, l’olfatto era stimolato dalla gradevole fragranza dolciastra del croccante, dalle nocciole caramellate e dallo zucchero filato: soffici, bianche nuvole dolci avvolte in uno stecco di legno.
Passeggiando tra le vie, gli odori e i profumi cambiavano. Uscendo dal perimetro murario del centro storico e procedendo fuori porta Valle, il dolce si mescolava ad altro: a quello penetrante delle cipolle o a quello mischiato delle varie spezie sparse sui banchi. Se la fame si faceva sentire, non si poteva resistere alla porchetta dell’ambulante di Norcia. Ma, non avrebbe mai uguagliato quella del rinomato macellaio Pastorini che, dalla sua bottega di fronte alla chiesa di San Filippo, di sabato inondava il corso.
La piazza dell’Orologio - o piazza della Repubblica come in effetti è la sua vera denominazione - fino a poche ore prima era gonfia di gente per la tradizionale Tombola de San Settì.
Tutti gli jesini, come ogni anno, si riversavano lì con la speranza di portare a casa uno dei tre premi. Magari anche l’ultimo, di cinquecentomila lire.
Quell’anno il primo premio era stato vinto da un operaio della SIMA in cassa integrazione. Il secondo, da una donna settantacinquenne abitante giù ‘l Verziere e il terzo da un’operaia trentenne di Treia, che lavorava all’ITALIM. Inscatolava i pomodori.
Lei, al momento del ritiro della vincita, si affacciò dal terrazzo da dove veniva estratta la lotteria e fu accolta con un ooohhh! di stupore generale.
Una bella ragazza mora. Un fisico mozzafiato, da modella, alta circa un metro e settantacinque e con un portamento elegante che non si addiceva affatto alla catena di montaggio in fabbrica. Forse per invidia, o forse per sminuire la sua figura troppo conturbante per un’operaia, le colleghe la chiamavano la pummidorara, ma il suo vero nome era Antonietta Giustozzi.
Ma Antonietta non aveva fatto in tempo a spendere la vincita.
Quando la trovarono la mattina dopo, portava ancora gli stessi abiti della sera precedente: la corta mini gonna in cotone nero e una camicetta a fiori arancio e verdi, semiaperta. Una collana di agata si adagiava sul suo petto mettendolo in evidenza. La sua chioma fluente nera scendeva fino alle spalle. Ai piedi, sandali di corda con zeppe di sughero.
Segni particolari: un neo sull’angolo destro della bocca. Come Virna Lisi. Labbra tinte da un rossetto rosso vermiglio.
Questo era ciò che era annotato sul referto dei carabinieri.
Presto la notizia della morte si diffuse in tutta la città.
Alle 4,30 del 23 settembre l’avevano rinvenuta i netturbini, mentre spazzavano i biglietti della tombola e le cartacce lasciate a svolazzare sull'impiantito della piazza. 
La giovane donna versava in un lago di sangue sulle scalette del CAI, con la gola squarciata.
I carabinieri avevano subito transennato la zona e stavano procedendo ai rilievi di rito. Il cadavere era coperto con un lenzuolo bianco, ma imprudentemente fuoriusciva una mano, fredda come il marmo a gennaio.
Tutt’intorno una folla di curiosi assisteva. Molti spingevano per cercare di sbirciare qualcosa, e le forze dell’ordine facevano fatica a tenerli lontano dal luogo del crimine.
Sì, perché quello era un omicidio. E, un omicidio a Jesi non si era mai visto!
La gola tagliata da un orecchio all’altro, non poteva essere stata una disgrazia.
In pochi minuti la notizia si era diffusa tra i bancarellai come una macchia di unto su una camicia di lino.
La macabra notizia arrivò in pochi minuti anche in piazza Padella, ovvero piazza Oberdan, dove Mariola stava finendo di allestire il suo banco. Piatti che sbattevano, padelle e pentole che scarabattolavano. Curiosa, come la maggior parte delle donne, (ma forse lei anche di più) senza pensarci due volte, aveva abbandonato il marito intento a sistemare la mercanzia.   

Mariola aveva una strana sensazione. Un presentimento le diceva che quella storia in qualche modo la riguardasse. Anche se in realtà, a lei interessava tutto. E, ogni piccolo avvenimento, anche il più insignificante, per lei diventava argomento di interminabili ciarlerie e discussioni.
Era conosciuta da tutti come una brava donna, cordiale, ma alquanto pettegola e chiacchierona; nessuno riusciva a sottrarsi ai suoi pettegolezzi se si andava a fare acquisti nel suo banco. Ma, nonostante quel suo atteggiamento, a dir poco pressante, era comunque considerata una simpaticona. Un po’ rompiballe… ma simpatica!
Mariola arrivò sul posto, con la lingua di fuori, ma rimase delusa perché i militari impedivano l’accesso al luogo del crimine.     
Aveva insistito per sapere chi fosse la sventurata, ma nessuno se la filava. Anzi, con la sua solita sfacciataggine, aveva provato anche ad infilarsi oltre il cordone di protezione, ma l’avevano ricacciata indietro in malo modo: e si era fatta da parte borbottando come una pentola in ebollizione.
Tra i bancarellai c’era già chi si lamentava per quelle transenne; li avevano isolati e, di sicuro, se non si fossero sbrigati a portare via il cadavere, anche quell’anno, avrebbero fatto pochi affari. Come l’anno precedente quando, durante i tre giorni di fiera, una burrasca si era abbattuta sulla Vallesina mandando all'aria i loro incassi.
L’ambulanza, a sirene spiegate, era riuscita a farsi largo lungo il Corso ormai sempre più affollato.
I barellieri stavano sollevando con molto impaccio, il giovane corpo e, un lembo del lenzuolo cadde di lato e lasciò intravedere il collo tagliato imbrattato di sangue e il volto bianco della giovane.
Incredulità, sgomento, terrore...
Mariola stentando a credere a quello che era riuscita a scorgere, si mise a urlare come un’ossessa e scoppiò in un pianto convulso e disperato.
La gente non riusciva a capire il suo dramma. Non conosceva la storia di quella giovane donna che aveva abbandonato il suo paese per venire a lavorare in fabbrica a Jesi. 

Quella bella ragazza era sua nipote: la figlia di sua sorella. 

Mariola l’aveva vista nascere. Avea visto Antonietta muovere i primi passi, crescere, andare all’asilo e giocare con le sue amiche del paese. Poi si ricordò anche del suo primo fidanzatino quando aveva quattordici anni.

In un attimo, come  in una pellicola che scorre a velocità doppia, rivide tutta la vita di Antonietta.

Dalle colonne del Corriere Adriatico e de Il Resto del Carlino, nei giorni seguenti, si sarebbe scoperto che il suo assassino era un ragazzo al quale lei aveva offerto da bere per festeggiare la vincita.
Dalle indagini emerse che i due si erano conosciuti in fabbrica da poco. Lui era stato assunto per la campagna estiva dei pomodori, da circa due mesi.
Un certo Cesare Mingherlini, operaio di anni venticinque, originario di Mummuiola.
La vista di tutti quei soldi, a Cesare, aveva dato alla testa… oltre all’alcol che già aveva in corpo. 
Aveva dichiarato che quel sabato sera avevano fatto tardi perché il giorno dopo era festa. E aveva aggiunto che i pomodori avrebbero aspettato nei frigoriferi fino al lunedì.
A seguito di quel tragico avvenimento, Costante e Mariola, disertarono le “tre fiere” di Jesi.
Di quegli ambulanti di Appignano, a Jesi, si persero le tracce.
Si dice che siano stati rivisti alcuni anni dopo, alle fiere di San Ciriaco di Ancona. I pettegoli, o i bene informati, li avevano trovati invecchiati e appassiti.

Forse erano loro…

 

© Franco Duranti - 2015