Una scarica di adrenalina aveva percorso, come una scossa elettrica, la mia mente.

Quella tipa seduta sulla panchina di piazza del Duomo mi aveva inciso l’anima come un bulino. Dovevo farmi avanti, trovare una scusa, magari banale. L’avevo vista danzare come un’invasata, mentre il suo gruppo di musica popolare inondava la piazza con le ossessive note della pizzica e della taranta.

Lei, adesso, era lì seduta. Sola, con lo sguardo perso nel vuoto. Sfinita dal ritmo demoniaco di quel ballo dissacratore di corteggiamento. Lucide perle di sudore le stavano rigando il bel volto abbronzato, con lo sguardo distante. Una cascata fluente di neri capelli le scendevano, appiccicati, sulle spalle nude.

La folla lentamente stava defluendo dalla piazza. Da quella stessa piazza dove nel 1194 era nato Federico II. Le luci del palco erano ormai spente e gli addetti stavano smontando le attrezzature. Anch’io me ne stavo andando, ma non potevo ignorarla. Senza il minimo timore, mi sono avvicinato con una scusa e le chiedo se è di queste parti: non l’avevo ho mai vista.

Lei mi squadrò, con i suoi grandi occhi assenti, quasi fosse strafatta di exctasy. Il suo sguardo dentro il mio. Come una lama d’acciaio mi trapassò. Quella danza di corteggiamento mi aveva catturato.

- Che vuoi? - mi disse. La sua diffidenza mi aveva spiazzato.

- Balli bene! - Risposi, cercando di accorciare la distanza che lei aveva creato.

- Lo so! - mi rispose sicura. Poi aggiunse, quasi a voler ricucire quello strappo iniziale che lei aveva provocato: - Sono di Nardò e tu? Sei di Jesi?

Lentamente, dopo il primo brusco impatto, la conversazione stava iniziando a fluire. Non avrei dovuto sbagliare mossa se volevo raggiungere lo scopo. Lo scopo? Non avevo un obiettivo certo, ma l’unica certezza era che, lei e la sua danza, mi aveva sedotto. E in quel momento ero attratto come una calamita. E, sentivo la voglia di manifestarle ciò che mi aveva trasmesso. Sì, e magari avrei voluto amarla, ma stavolta non avrei dovuto fallire l’approccio, come era capitato un mese prima.

Quella volta, sbagliai le avances con quella ragazza conosciuta in discoteca. Ero stato poco diplomatico e forse anche un po’ troppo su di giri. Le tre birre, al doppio malto, mi avevano annebbiato le facoltà mentali.

Quella sera invece, in piazza, ero ancora abbastanza sobrio... solo una bionda.

- Sì, sono di qui - le confermai - Ti va di bere qualcosa?

Asciugandosi le gocce di sudore con il dorso della mano sinistra mi disse di sì, che le andava. Poi, ci presentiamo. Mi porge la mano destra:

- Ciao, sono Concetta. La sua mano calda e umida strinse la mia:

- Mi chiamo Fabio - Il suo accento salentino era inconfondibile, come la sua bellezza tipicamente mediterranea. La sua bella bocca rossa e piena, era dischiusa e ancora ansimante per la fatica della danza. Quella danza carica di sensualità, di passione. Dove i due ballerini si sfiorano, si rincorrono, si toccano lanciandosi occhiate ammiccanti.

L’avevo ammirata, rapito. Avrei voluto essere io quel ballerino in quel saltellare allegro e vivido. Anche se non sapevo ballare la taranta. Il suo uomo che la sfiorava, la lisciava con il fazzoletto rosso lungo i fianchi sinuosi e rotondi. Mentre lei, intanto, cercava un contatto fugace, poi fingere di scappare e riavvicinarsi a lui e farsi corteggiare. Poi ancora, di nuovo, roteare con abili movimenti delle mani che scendevano per sollevare la morbida gonna, mettendo in mostra le snelle forme delle sue gambe abbronzate. E volteggiare, ancora, intorno a quel complice corpo maschile

Glielo dissi. Mi sorrise, mettendo in mostra i suoi denti bianchissimi. Una collana di perle. Si accorge che le sto guardando la bocca. Avrei voluto baciarla, e per stemperare la mia eccitazione le chiesi:

- Il ballerino che ti accompagna, è il tuo ragazzo?

- No, fa parte della compagnia - mi disse - È bravo anche lui, vero? – E aggiunse: - Tu, sai ballare?

- No, sono negato. Un pezzo di legno, però mi piacerebbe farlo con te.

Sorrise, mettendo in mostra di nuovo la sua collana di perle.

Ci allontanammo dalla piazza che si stava vuotando. Ci dirigemmo verso via degli Orefici.

Lei, Tina, così come la chiamavano tutti, mi prese sotto braccio. Un brivido mi percorse tutto il corpo.

Lei se ne accorse:

- Hai freddo? - mi disse.

- No, sto benissimo! - risposi

Credo avesse capito che quel brivido era stato provocato da lei…

Ci sedemmo sugli alti sgabelli della birreria, sotto gli archi.  Ne ordiniamo due, scure, e lentamente le sorseggiamo, spiluccando salatini e patatine.

- Cosa fai nella vita?

- Sono architetto, e tu?

- Faccio parte di questa compagnia e giro la penisola.

Avrei voluto dirle mille cose di me e chiederle di fermarsi, e magari insegnarmi a danzare, ma non trovavo il coraggio. Sapevo che presto sarebbe dovuta ripartire. Ribadii, ancora una volta, che quel ballo mi aveva sconvolto. Tina estrasse dalla sua borsa di tela grezza, dai mille colori, un DVD: la registrazione delle musiche che aveva interpretato quella sera.

Me lo porse e mi disse:

- Te lo regalo Fabio, così ti ricorderai di me! - stampandomi un bacio leggero sulla guancia rasata.

L’estate, lentamente, stava terminando e così anche le mie ferie. Dopo pochi giorni avrei riaperto lo studio e quella serata mi aveva lasciato addosso una strana sensazione, un sapore piccante, …di pizzica.

Le chiesi se aveva voglia di insegnarmi quei passi e quei movimenti così inebrianti.

Tina fu d’accordo. In quel momento il suo volto apparve più elastico, la spossatezza la stava abbandonando.

- Dove andiamo? - mi chiese

- Nel mio studio, ho un impianto hi-fi.

È mezzanotte, la città era ancora viva. Come me, non voleva arrendersi e pullulava di persone che brindavano alla vita. Senza accorgersi di noi. 

Abbracciati, ci dirigemmo verso il mio studio, percorrendo il cuore del centro storico. Tra negli stretti vicoli della Jesi antica: Via Roccabella, rischiarata appena dalla luce soffusa dei lampioni in ferro battuto. Scendemmo le scalette di Costa Lombarda, un gatto grigio ci guardò distrattamente mentre era alle prese con avanzi di pollo arrosto rinsecchito.

Desideravo che quella notte agostana non avesse mai fine. I suoi passi leggeri e silenziosi avanzavano nella semioscurità. Le sue espadrilles di tela azzurra accarezzavano il selciato ancora caldo.

Dalle finestre spalancate del mio atelier, improvvisamente, si diffusero le note della taranta. Uscivano libere, dirompenti e sensuali. Violini, chitarre, fisarmoniche e tamburelli. Quel ritmo frenetico era il solo responsabile.  

E sul terrazzo, sotto una scura coperta di stelle, uniti da quel malizioso velo rosso, le nostre bocche si incontrarono.

 

© Franco Duranti - 2015