Questo potrebbe essere il titolo di un racconto.  Peccato, però, che già ci sia stato chi ha avuto la bella idea di intitolare un romanzo così…
Però me ne frego e comincio a raccontare la mia disavventura.
Mi trovo ancora una volta, qui a fare la fila, in questa noiosissima sala d’attesa del pronto soccorso.
Sono approdato in questo pantano fangoso alle 13,30 di una tiepida mattina d’ottobre. Dopo due ore di estenuante fila dal mio medico di base che, come se non fosse bastata l’attesa che avevo già sulle spalle, mi ha indirizzato qui.
Sono qui, seduto, da ormai quasi cinque ore con un libro tra le mani in questo limo e sto sprofondando sempre di più.
Più il tempo passa e più le ore di attesa si allungano. L’unica mia  salvezza è il romanzo che sto leggendo.
Faccio la fila e le mie sacrosante palle, già abbastanza tumefatte, sembrano che sia sul punto di scoppiare. Non mi assumo responsabilità per eventuali danni o feriti…
Guardo il display alla parete di fronte ai miei occhi. È in continuo mutamento.
I numeri assegnati, con le ore di attesa previste per la visita, scorrono veloci.  Cambiano in base all’arrivo dei nuovi clienti, e in funzione della gravità del paziente (?). Ma dubito che dopo cinque, sei, sette o otto ore di attesa uno possa essere ancora paziente.
Dalle notizie riportate sulla stampa locale, si evince che l’unita di P.S. di questa città (Jesi) è superiore alla media nazionale (5,3). Gli è stata assegnata una valutazione di 6,2… figuriamoci le altre! Non oso immaginare l’inferno di quelle strutture di primo intervento.

La gente in attesa è impaziente, ma ancora è composta. C’è chi sbuffa silenziosamente, chi si lamenta con dignità, chi telefona, chi legge (come me) e chi si torce dai dolori alla schiena.
Nonostante tutto oggi è una giornata calma, dicono gli abitudinari. Mancano all’appello i soliti extracomunitari sbronzi. Quelli che ricorrono alle cure del primo intervento perché si spaccano tra di loro le bottiglie in testa.
Il numero che mi è stato assegnato è il 147 e vedo l’orario di visita cambiare di minuto in minuto. Al mio ingresso il tempo d’attesa previsto era di circa 10 ore e 30 minuti - Non male! - In dieci ore si fa in tempo a crepare e a preparare i documenti per la traslazione.
Non credo di crepare, anche perché il codice che mi hanno assegnato è VERDE. Quindi suppongo di non essere molto grave. Comunque le mie palle stanno scoppiando!
In questo momento (sono solo sette ore che sono qui), stanno chiamando il 169 - codice ROSSO.  Lui, il fortunato (?), ha scavalcato una ventina di numeri. E io, che sono un misero codice VERDE, ancora una volta mi ritrovo in coda.
Mi rituffo nel romanzo di Kundera, ormai mi sono divorato quasi trecento pagine e suppongo che arriverò alla fine prima della mia chiamata. Questa è l’unica nota positiva in questa lunga agonia.
Però il brusio aumenta e non riesco più a concentrarmi sulle pagine finali. Dopo quasi otto ore di attesa anche la concentrazione mi abbandona.
La prosa dello scrittore ceco non è molto agevole e richiede un’accurata attenzione. Una giovane donna parla animatamente al telefono:  sta dando consigli e indicazioni al suo interlocutore su alcune procedure da seguire. Evidentemente anche lei, che è qui da due ore prima di me, ha capito che la sua vita e i suoi impegni devono andare avanti e non possono essere sommersi da questa pessima gestione.
Sono le 20,45. Sette ore abbondanti di attesa possono bastare.
Chiudo il romanzo,  sono convito che: La vita è altrove. Perlomeno la mia.
Abbandono Kundera e decido di abbandonare anche il pronto soccorso.

Franco Duranti - 2016