Il loro incontro, alla fine, era stato un incontro patetico. I cinque amici di un tempo si erano ritrovati dopo cinquant’anni, in quel ristorante di campagna appena fuori città, sotto un gazebo. Le risate, le pacche sulle spalle e gli sfottò, comunque non erano riusciti a confondere i loro acciacchi e i loro malanni. Quasi tutti avevano problemi di sovrappeso: trigliceridi, colesterolo e glicemia erano i loro alleati e il diabete ne aveva già marchiati un paio. Solamente Vittorio conservava il fisico asciutto di quando era ragazzo. Poteva essere definito una sardina in mezzo a tante carpe panciute.

     La prostata, poi, ne aveva già castrati due, di quei vecchi marpioni… il primo era stato Fausto che a sessantadue anni aveva visto ridurre le sue smanie sessuali: ma ancora continuava a provarci. L’anno successivo era stata la volta di Tano. Lui però, quella sera a cena non era della comitiva: aveva tolto il disturbo prima del previsto, se n’era andato quasi senza avvisare.

     Tano aveva una gran paura di morire e di finire sotto i ferri, aveva il terrore della malattia. Quando fu costretto ad operarsi alla prostata, Fausto, prima di entrare in camera operatoria l’aveva tranquillizzato buttandola a ridere. Gli aveva detto: “Vedrai, vecchio mio, almeno dopo piscerai bene!”, poi aveva aggiunto: “ormai alla nostra età, il sesso, quello che è fatto, è fatto…”. Comunque Fausto, nonostante le difficoltà, non si dava per vinto.

     Tano se n’era uscito di scena in punta di piedi ormai da due anni, senza il conforto dei suoi vecchi amici. Senza baci e senza abbracci. Di lui, però, ne parlavano con piacere anche se non era a tavola, era come se la sua presenza incombesse su di loro.

     Lui era stato sempre disponibile con tutti e il suo modo garbato, accomodante e gentile lo permeava da litigi. Se n’era andato anzi tempo, ma non per l’operazione alla prostata: quella era riuscita perfettamente, ma a causa di un tumore ai polmoni che lo aveva assalito dopo poco la sua pensione. Non aveva fatto nemmeno in tempo a godersela.

     Eternamente ipocondriaco, sempre mesto e depresso. Dall’alto del suo metro e novanta, sentiva su di sé tutta la responsabilità del mondo, come se gravasse tutta sulle sue spalle. La sua malinconia svaniva solo quando imbracciava la chitarra, solo allora cambiava umore e ll suo viso s’illuminava di una luce radiosa. I tratti si scioglievano, le rughe disegnate dal tempo gli si distendevano. Ritornava come da giovane, quando era sul palco.

     Dietro le orecchie, poco prima che se ne andasse, gli erano rimasti pochi capelli biondastri. Forse la chemio aveva contribuito… Gli piaceva tenerli ancora lunghi come un vecchio “beat”, mentre la calotta era glabra e lucida.  

     Era ossessionato dai farmaci. Gli bastava un leggero mal di testa e subito si preoccupava e telefonava a Fausto per avere quelle sicurezze che non aveva. Per Tano, Fausto era una certezza: bastavano due parole, una battuta per tranquillizzarlo.

     Però, non ci riuscì quando quel cancro lo aggredì senza scampo. Lui era talmente incazzato con il mondo che non aveva voluto nessuno intorno. Nemmeno Fausto.

     Solo la sua compagna Teresa era riuscita a stargli vicino. Con lei conviveva dopo che si era separato dalla prima moglie. Non aveva mai voluto diventare padre: non voleva che suo figlio soffrisse come lui, con le sue paure, le sue fobie.

     Fausto, in chiesa al suo funerale lo aveva ricordato con poche ma intense parole. Forse solo lui aveva capito la sua grande complessità ad affrontare la malattia:

     Ciao Tano,

     vorremmo pensare che ora stai bene e magari dove ti trovi ora ti diverti anche… anche senza di noi.

     Magari farai due chiacchiere con John e George e chiederai loro qualche consiglio.

     Te ne sei andato senza che nessuno di noi ti sia stato di conforto. Ma questo lo hai scelto tu e noi abbiamo rispettato

      il tuo dolore. Però sappi che quaggiù già ci manchi davvero tanto, e sarà dura per noi.

     Ci manca la tua gentilezza, il tuo modo elegante e garbato con il quale ti ponevi con noi tutti, senza distinzioni.

     Finalmente eri andato in pensione: ci eri arrivato stanco. Stanco dei problemi di lavoro, degli orari, della routine.

     Volevi trovare tempo per te, per la musica. Finalmente c’eri riuscito e adesso la musica riempiva le ore della tua giornata.

     Ci saremo dovuti incontrare ancora una volta per una pizza, per scambiare ancora due chiacchiere, sui Beatles,

     sulle chitarre, sulla vita…

     Quella vita che alla fine ti ha voltato le spalle all’improvviso, senza pietà.

     Non abbiamo fatto in tempo, Tano, a mangiare quella pizza.

    Stavolta abbiamo preso male le misure! Ma ti assicuro che quando ci incontreremo tra di noi, tu avrai sempre un posto   

    riservato vicino al nostro cuore…

     All you need is love.

 

     Lo avevano ricordato così, gli scampati, con quella lettera di commiato che Fausto aveva letto nel giorno del suo funerale. E ora, in quella tavolata, tutti avevano un po’ di rammarico per non essergli stati vicini abbastanza.

     Erano le ultime giornate calde di settembre e l’autunno era alle porte.

     Avevano deciso di vedersi ancora una volta prima che la morte acchiappasse anche loro. Qualche bicchiere di buon vino bianco, qualche fetta di salame e di pecorino stagionato non sarebbero riuscite a scalfire la loro esistenza. E poi chissenefrega! Visto la fine che aveva fatto Tano…

     Erano tutti nella stessa barca.

     Stavano navigando sopra un vecchio guscio di legno malandato che ormai aveva cominciato a fare acqua da più parti. Rino era stato il primo a imbarcare acqua in quella mareggiata, ma ancora resisteva alla buriana. Aveva vissuto più intensamente degli altri: bevuto e fumato più del consentito, anche del fumo illegale ma, nonostante tutto, ancora riusciva a raccontarlo. Aveva fatto tanti mestieri: il musicista, il fonico, il falegname, l’autista, il restauratore, perfino il marinaio. Non s’era mai annoiato. Ma dopo una vita avventurosa e vissuta fuori dalle regole, aveva mandato tutto a quel paese. Aveva detto basta con il lavoro! E così era solo sua moglie Caterina lavorare.

     Caterina l’aveva conosciuta alla fine degli anni settanta in uno dei suoi concerti.

     Avevano circa vent’anni, con la voglia di spaccare il mondo. Alcuni di loro lo aveva già spaccato, prima del previsto.

     Come era successo ad Attilio.

     Il suo viaggio era cessato in anticipo. Quando li aveva lasciati tutti, per sempre, aveva compiuto da poco quarant’anni.

     Una brutta storia la sua. Allora, era il più dotato del gruppo, anche in campo sessuale. Attilio ci sapeva fare con le donne. Era stato l’unico di loro che dopo la maturità aveva preso due lauree. Poi era scappato a Roma lasciando gli altri a vivere in provincia con i loro sogni nel cassetto.

     Lui invece, nella capitale, aveva iniziato un importante percorso politico nel partito comunista. Ma si era fermato in fretta. Non gli bastava nemmeno quello per affrontare la vita. Voleva azzannarla la vita.

     Gli studi di filosofia e scienze politiche gli avevano aperto nuovi scenari e, inseguendo quelle nuove strade, aveva sbattuto anche con la droga pesante.  E quella era stata la sua fine.

     Il discorso sulla sua morte era stato tirato in ballo da Filiberto detto Filo, il barbiere.

     Era l’unico di loro che non si era diplomato: si era fermato alla licenza media ed era entrato subito nel mondo del lavoro. A quei tempi era facile trovarlo, faceva il garzone di bottega in una barbieria del centro storico. Ma all’epoca della disgrazia di Attilio, Filiberto non lavorava più in città e non aveva avuto notizie certe sulla sua scomparsa.

     Allora tutti andavano nella “sua” barbieria a tagliarsi i capelli: era un luogo di ritrovo, si parlava di sport, di musica e di donne.

     La discussione sull’amico deceduto era stato tirato in ballo mentre aspettavano il secondo vassoio di affettati e formaggi; il primo si era disintegrato non appena toccato la tavola.

     La sua morte, a distanza di più di trent’anni, ancora faceva discutere. Giravano ancora molti pettegolezzi e notizie false. Nemmeno la moglie Silvia, dalla quale si era separato dopo un anno di matrimonio a causa di una tizia che aveva conosciuto nella segreteria del partito, sapeva tutta la verità.

     Attilio era morto in carcere da solo. Solo come un cane. Ma c’era chi ancora continuava a favoleggiare sulla sua fine; qualcuno sosteneva che fosse stato ucciso durante l’ora d’aria, per una partita di droga mai pagata.

     Quindi anche la sua triste storia continuava a vagare tra loro come un fantasma…

     Non solo ricordi tristi, ma anche risate. La risata di Filiberto era rimasta immutata negli anni. Era inconfondibile. Somigliava al raglio di un somaro o a quello di una marmitta sfondata. Lo sgradevole effetto sonoro era dovuto al suo naso schiacciato e adunco che impediva la normale fuoriuscita dell’aria dai setti nasali. Ad ogni suo sghignazzo, tutti sobbalzavano sulle sedie e ridevano con lui e di lui.

     Ognuno a tratti raccontava uno stralcio della propria vita: e quelli che non c’erano più, comunque, entravano nei discorsi. Come se stessero ancora a tavola con loro.

     Lui, l’ex barbiere con la sua solita aria scanzonata, da vecchio guascone, era quello che scodellava i ricordi. Riportava alla luce vecchie storie e antichi amori. Tutti si sentivano coinvolti e sembrava che il fuoco della gioventù ancora ardesse. Sembrava che sotto quella cenere, che aveva ricoperto e imbiancato le loro chiome, non più fluenti, ardesse ancora.

     Quel fuoco lentamente, però si stava spegnendo per tutti; anche per Vittorio, che in apparenza, era quello più in forma. Il suo fisico era ancora asciutto come mezzo secolo prima. Solamente i capelli gli si erano imbiancati del tutto.

     L’argomento più imbarazzante della serata riguardava proprio lui. Anzi la recente scomparsa di sua moglie. Nessuno aveva intenzione a tirare in ballo quella triste storia, ma era affiorata quasi senza volerlo.

     Loro si erano incontrati e amati fin dai tempi del liceo e da allora non si erano più lasciati. Vittorio l’aveva accompagnata fino all’ultimo giorno di vita prima che la situazione precipitasse. Tutti gli amici gli erano stati vicino e lo avevano incoraggiato. Ma dopo un’estenuante battaglia con il maligno, durata oltre due anni, Lorella aveva ceduto. Aveva abbandonato tutti: il marito Vittorio, i figli e i nipoti e gli amici.

     Quel nervo era ancora scoperto e, per lui era stato difficile nascondere le lacrime. A ogni ricordo che affiorava, i suoi occhi, sfacciatamente azzurri si inumidivano. E anche per loro, gli amici di sempre, era stato impossibile fare finta di niente e restare impassibili.

     Senza volerlo, quel ricordo, li aveva fatti scivolare in un pantano e quel terreno paludoso rischiava di farli sprofondare e mandare all’aria il clima che si era respirato fino a poco prima. Nessuno aveva intenzione di finirci dentro, tantomeno Filo che, inavvertitamente vi si era addentrato.

     Con prontezza, prima dell’arrivo delle tagliatelle al cinghiale, Fausto era riuscito a interrompere quella corrente negativa. Cambiò argomento e lo diresse verso la loro antica e esclusiva passione. La pesca. Esclusiva perché quella riguardava solo loro due.

     Li accomunava dai tempi della scuola, però negli ultimi due anni Vittorio aveva dovuto abbandonare tutto, anche quella. Aveva abbandonato la chitarra, la musica, la pesca e tutto ciò che lo distoglieva dal suo “eterno amore” che lo stava abbandonando.

     Settembre era agli sgoccioli e il bel tempo prometteva ancora delle buone giornate lungo il fiume. Avrebbero potuto pescare ancora qualche trota, ma Fausto sapeva, però, che per il suo amico quello sarebbe stato un settembre diverso...

     Vittorio si ricompose, si soffiò il naso.

     L’azzurro luminoso dei suoi occhi lentamente riprese a brillare, appena Fausto iniziò a parlare di trote, lucci, persici e carpe. Gli rammentò quella cattura – una carpa di quasi otto chili – che avevano fatto in una buca sul fiume Esino. Gli altri, avulsi dalla loro passione, attaccarono di nuovo a favoleggiare sulle loro vite strampalate, su vecchi amori e su conquiste finite male.

     Rino, con la sua mole, era seduto a capotavola: aveva bisogno di spazio intorno a lui. Nonostante fosse dimagrito di venticinque chili, la bilancia continuava inesorabilmente a oscillare sopra i centoventi. La magrezza dei vent’anni era un lontano ricordo. L’alcol, unito alla cattiva alimentazione, aveva contribuito all’inesorabile declino del suo fisico.

     Lui, comunque, continuava ancora a tenere banco facendo il “pagliaccio”. Faceva di tutto per catturare l’attenzione. Parlava con enfasi delle sue passioni: come se quelle fossero prioritarie su tutto il resto del mondo. Quelle erano esclusivamente le sue e, anche se agli altri non fregava nulla, pretendeva l’attenzione di tutti. Qualcuno provava a sviare il monologo di Rino, ma lui prontamente alzava il tono di voce e cercava di riportarli nelle sue narrazioni.

     Lui e Caterina non avevano avuto figli. Non si è mai saputo se per scelta o per impossibilità di averne. Nessuno glielo aveva mai domandato ma, se fossero arrivati, di sicuro avrebbe avuto altro a cui pensare… e le sue fisime sarebbero state assorbite dalle ansie e dai grattacapi che di solito i figli danno.  

     Gli anni erano scivolati senza pietà, per tutti. Ma per Rino sembrava che il tempo si fosse fermato agli anni giovanili. Certo, non dal punto di vista fisico, quello aveva giocato a suo sfavore, ma da quello mentale. Era come se la vita gli fosse passata accanto senza scalfire la sua aria da eterno mattacchione. Continuava a fare il buffone e sparava cazzate a raffica come da giovane. Questo suo atteggiamento in parte rendeva piacevole la sua compagnia, ma dopo un po’ le sue battute diventavano forzate. Erano state divertenti cinquant’anni prima, ma adesso sembrava che suonassero come un coccio crepato.

     Anche Fausto, nonostante i problemi di salute continuassero a perseguitarlo, si ostinava a fare l’eterno “ragazzo”. Aveva sempre la sacca pronta con i pigiami e la biancheria intima di ricambio. Era sempre in attesa che lo chiamassero per risolvere uno dei tanti problemi di salute che lo perseguitava. Aveva sfidato la paura anche in pieno periodo pandemico. Si era operato a un rene, una ciste, e ora dava l’impressione di essere di nuovo in forma.

     Quella sera era arrivato all’incontro come se quello che aveva subito appena cinque mesi prima non lo avesse scalfito. Aveva parcheggiato la sua spider rossa vicino alle utilitarie degli amici e, chiudendo lo sportello con un tonfo, aveva fatto in modo che tutti notassero il suo arrivo.

     Indossava occhiali da sole scuri come un divo: gli dava un’aura di mistero e di fascino, quello lo aveva sempre avuto anche adesso nonostante gli acciacchi lo affliggessero. Con il braccio alzato, aveva salutato tutti, come volesse benedirli. Mentre si avvicinava, aveva lanciato un’occhiata al tavolo vicino e salutò le due donne sopra i cinquanta che stavano mangiando. Le due si voltarono e ricambiarono la cortesia. Fausto accennò a un inchino; la sua galanteria sembrava fuori moda, ma lui era così. E, quegli atteggiamenti un po’ démodé gli avevano aperto alcune porte verso nuove conquiste.

     La cena, tra chiacchiere, pettegolezzi e qualche lacrimuccia fuori programma, stava volgendo al termine. Chissà se avrebbero avuto l’occasione di farne un’altra?

     Dopo il caffè, Emilio che fino a quel momento era stato in ascolto, propose di suonare qualcosa, giusto per ricordare le canzoni della loro giovinezza. Sembrava che nessuno volesse ammetterlo, ma quegli anni si erano dileguati in maniera ineluttabile. Erano franati.         

     Sui versi e sulle note immortali di Guccini erano riaffiorati i loro anni migliori. La voce calda e potente di Emilio intonò il vecchio e il bambino: e in un attimo tutto intorno il clima cambiò. La tristezza li avvolse: era come se il testo della canzone riguardasse la loro vita.

     Emilio arpeggiò gli accordi con la sua solita abilità: la chitarra acustica era una, ma sembrava che ce ne fosse un’altra ad accompagnare la canzone.

     Il cameriere, sollecitato da Filo, portò in tavola una bottiglia di Limoncello ghiacciato: quello serviva per lubrificare le ugole, e in breve tempo evaporò.

     Brindarono alla vita e alla morte con le parole di Fausto:

     «Cari amici, sto pensando che invecchiare è un regalo che la vita ci sta facendo. Invecchiare è un previlegio che non tutti hanno avuto: ma noi siamo ancora qui e possiamo raccontarla! Siamo gli scampati: forse tra poco sarà il nostro turno e allora la aspetteremo. Tanto lo sappiamo che la Vita e la Morte sono due facce della stessa medaglia. Buona sorte a tutti!»

© Franco Duranti - luglio 2022